Quello che ha detto Manuel Agnelli, loro mentore, è ciò a cui si dovrebbe sempre far riferimento quando si ascolta la loro musica. È un doveroso preambolo a questa recensione e serve a provare a dissipare l’acredine che li circonda ogni qualvolta si parla di loro:

“I Måneskin sono un gruppo mainstream, hanno sempre voluto essere mainstream. La chiave di lettura dei Måneskin è il loro talento performativo, la loro freschezza e il fatto che in questo momento rappresentano il contemporaneo. Non ha senso l’analisi musicale dei Måneskin, ma ha senso capire il fenomeno Måneskin. Poi uno è liberissimo di non farseli piacere, ma comprenderli significa comprendere il linguaggio dei ragazzi d’oggi”.

Sappiamo dove e come hanno trionfato, sarebbe ripetitivo citare il percorso che li ha portati su un palco con i Rolling Stones, in studio di registrazione con Iggy Pop e più recentemente con Tom Morello o ad essere parte con “If I Can Dream”del biopic di Baz Luhrmann sulla vita di Elvis Presley. Però è dovere di cronaca ricordarlo ed evidenziarlo, prima di parlare di questo loro terzo lavoro. “Rush!” può essere considerato una sorta di debutto, anche se di debutto non si tratta, dato che lo precedono due full lenght (Il ballo della vita e Teatro d’ira-Vol.I) e una manciata di singoli di grande successo.

È il disco della definitiva consacrazione o presunta tale? Potrebbe. È l’iniziazione al mondo della musica che conta, partendo da un’incredibile base di gradimento? Questo è più probabile. Dopo aver ascoltato i quattro singoli che hanno anticipato l’uscita dell’album, potevamo esserci fatti una vaga idea di cosa potessero contenere le tredici tracce inedite. Ma come spesso succede nel music business, le nostre certezze sono state smentite. Se “Supermodel” e “Mammamia” sono un inno al “pop’n’roll” (non per questo poco valide) e “The Loneliest” rientra nella categoria delle furbissime ballad radio friendly, “Gossip”, con la collaborazione di Tom Morello (Rage Against the Machine, Audioslave, Prophets of Rage) sposta immediatamente l’attenzione su una base rock più pura.

L’intero disco non brilla per fantasia e variegatura nei riff, riproponendo molto spesso soluzioni rivisitate che partono da basi consolidate. La scelta però funziona lo stesso e non mancano idee interessanti e in parte già mature. D’altronde la farina nel sacco era già sufficiente e la valida produzione ha sicuramente apportato fantasia ed estro. Qualcosa che peraltro nel rock internazionale si è già visto, e dicendolo possiamo scomodare band sacre ed intoccabili come gli AC/DC, che in tal senso sono ben noti (al tempo furono per questo criticati dalla stampa musicale). Altro aspetto condivisibile con la band australiana è il carattere ironico e a tratti parodistico con il quale si gioca sulla figura del cattivo ragazzo, tramite riferimenti anche umoristici al trittico “droga sesso e rock and roll” e l’utilizzo di abiti dal tratto androgino, che ricordano il glam rock fine anni Settanta. Buona parte del cantato è in lingua inglese e una piccola ma significativa parte in italiano. Dico significativa, perché i pezzi nella nostra lingua sono i più riflessivi ed introspettivi, che a tratti sfociano in un cantato fin troppo serio e impegnato. Quasi a voler far capire all’ascoltatore che la musica italiana è ben lontana da testi e motivetti caciaroni e minimalisti. Come a voler dimostrare che l’italiano c’è ma non a sproposito, che non siamo soltanto “O Sole Mio” o “L’Italiano”, anche se buona parte del pubblico estero non si prenderà la briga di tradurre la lingua di Dante, approfondendo i contenuti. Parliamo quindi di “Mark Chapman” (titolo poco italiano, si riferisce all’assassino di John Lennon),“La Fine” e “Il Dono della Vita”, tutte e tre incentrate sul tema del successo, dei suoi lati oscuri, delle sue trappole e di come sia giusto sentirsi in debito verso chi l’ha reso possibile, anche solo avendoci dato la vita. Questa sezione (a mio avviso dovuta, perché è parte del percorso) è molto preziosa ma distonica rispetto al volto che è stato dato all’intero lavoro, che vuole essere ironico ed ammiccante (vedi riferimenti a sbronze, cocaina e sesso) ma anche casinista e divertente. I riferimenti più scherzosi e caricaturali vogliono essere impliciti ma si rifanno evidentemente alle assurde accuse di dipendenza rivolte alla band e a Damiano David durante l’Eurovision Song Contest tenutosi due anni fa a Rotterdam e più in generale si rivolgono agli haters (in particolar modo nostrani) e alla loro aggressività verbale. Il lato guascone, che strizza l’occhio allo stereotipo del latin lover tipico del Belpaese, va ad integrare l’immagine che viene proposta durante le esibizioni dal vivo, dove si passa con incredibile naturalezza dal gessato al latex, per arrivare alla pelle e al pizzo. Con buona pace dei criticoni congeniti allergici all’estro.

“Gasoline” (la migliore a mio avviso) e “Feel” sono le canzoni più tecniche e mature a livello compositivo. Il testo accusatorio della prima delle due rimanda immediatamente a Putin e alla guerra che ha scatenato (la band non ha lesinato critiche esplicite in merito); anche senza riferimenti espliciti, si accusano “il potente” e la sua fonte di ricchezza di non avere rispetto per nessuno (Il tema del potente ricorda un po’ “School of Rock” ndr). Le note di basso sono coinvolgenti e credo saranno interessanti da sentire dal vivo, come tutto il pezzo.“Feel”, con il main riff, strizza l’occhio al rock alternativo dei White Stripes e ad un celeberrimo pezzo in particolare, “Seven Nation Army” (ricorda qualcuno e qualcosa?). Il testo rimanda all’ironia di cui prima, con la voce corale di sottofondo che ripete: “Cocaine is on the table!”

Il rovescio della medaglia è dato da “Bla Bla Bla” e “Kool Kids”, che credo penalizzino parecchio l’intero lavoro. La prima è una sorta di canzone con poco testo (e in apparenza poco senso) e tanti grezzi versi (intesi come onomatopea). La seconda vuol essere un po’ pop punk, un po’ funky ma risulta essere solo fastidiosamente urlata (Damiano si presenta in una veste vocale diversa e quasi irriconoscibile). È comprensibile la voglia di stupire i fan più giovani da parte di chi si è messo ai comandi del progetto, ma qui si esagera. Se da una parte si prova a dare una possibilità, dall’altra si preme il tasto skip visibilmente infastiditi.

“Don’t Wanna Sleep”, l’opening “Own my Mind” e “Baby Said” sono le più scatenate. Ci fanno ballare a tempo di rock e vogliono attingere dal lato buono degli anni Settanta. Più rallentate ma non meno emozionanti in tal senso “Timezone”, “Read your Diary” e l'onirica ballata "If not For You", che fanno rifiatare intervallandosi alle sopracitate tre.

Al di là dei miei gusti personali, che mi ricordano sempre che prendendo un disco dallo scaffale non dovremmo mai avere un primo impatto visivo con i membri della band, ritengo che la copertina sia parzialmente detestabile. Una via di mezzo tra un richiamo alla prima discografia di Britney Spears e il ricordo di una giornata al parco giochi, è pressoché inadatta a un progetto come questo. Giusta è l’ironia (come dice Jovanotti: "Il centro della terra sta sotto la gonna") ed è vero che “rush” vuol dire fretta ma non dobbiamo dimenticarci che, nonostante tutto, si è iniziato a fare sul serio.

In coda ad ogni considerazione e in definitiva posso dire che questo album mi è piaciuto e a tratti parecchio. C’è ancora da lavorare sulla tecnica ma considerando l’età media dei componenti, si può dire che il livello sia già molto buono. Si tratta di un progetto studiato a tavolino per una band che in questo momento è in quota e sta respirando il successo a pieni polmoni, pertanto va considerato questo aspetto nella nostra chiave di lettura del lavoro. E questa cosa non deve penalizzare il giudizio finale.

I Måneskin, tra gli altri, hanno un grande merito: non hanno rinnegato le loro origini. E non è poca cosa. Ci si poteva aspettare che con questo disco la formazione romana avesse abbandonato la lingua italiana, con la consapevolezza di godere di un consenso internazionale ma anche la certezza di subire una feroce critica locale. Ma così non è stato.

Possono non piacere, può non piacere la loro musica ma il solo fatto di aver portato così tanta Italia in ogni angolo di questo pianeta malconcio, ci può soltanto portare orgoglio.

E se nel bene e nel male si sta parlando di rock alle nuove generazioni, facendoci largo in una fitta trama di musica leggera, ben venga davvero.

Siamo Pavarotti, Il Volo e Andrea Bocelli (anche Toto Cutugno). Ora siamo anche i Måneskin, per parlare di noi alle nuove generazioni. Senza troppe pretese e con molta serenità.

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