È triste recensire quello che sappiamo essere l’ultimo album di Mark Lanegan, morto a 57 anni la mattina del 22 febbraio 2022 nella sua casa di Killarney, in Irlanda. E, malgrado tutto, nessuno si aspettava la sua morte. Per lo meno, io non me la aspettavo. Non quando, Mark, veterano del Grunge anni Novanta che aveva vissuto sull’orlo dell’abisso, cullato tra le braccia della morte a causa delle sue dipendenze, aveva ormai da circa vent’anni intrapreso una strada più intimista e soprattutto più sobria rispetto ai tempi degli Screaming Trees e degli inizi della sua carriera solista. Non quando Mark aveva ritrovato l’apparente sicurezza di una vita senza eccessi.

Straight Songs Of Sorrow è il racconto della discesa agli inferi e ritorno di Mark Lanegan, il quale è andato fin laggiù a cercare gli anni della sua gioventù e, come se avesse avuto una premonizione, ci ha consegnato quest’album, testamento artistico e di vita quanto mai appropriato poiché infestato dei demoni che era riuscito a relegare nel territorio dei ricordi e che evoca nuovamente, sputandoli fuori insieme alle parole attraverso la sua voce catramosa, componendo una sorta di personale “in memoriam”, come se avesse sentito il bisogno di chiudere i conti con il passato una volta per tutte. Il cerchio si chiude. I fantasmi possono andarsene finalmente in libera uscita.

Straight Songs Of Sorrow è, dunque, popolato da quei demoni che attendono pazientemente Dark Mark dai tempi della sua Seattle tossica, da quando in “Hospital Roll Call” intonava l’unica parola che ne costituiva il testo, sixteen, ossia il numero della camera d’ospedale in cui era ricoverato per disintossicarsi. Quei demoni che sono stati ridestati dall’autobiografia di Lanegan, intitolata Sing Backwards And Weep, che assomiglia a un romanzo di Bukowski, cronaca di un’esistenza travolta da un fiume di whisky ed eroina. Un dramma raccontato con crudo realismo che, tuttavia, non ha avuto un effetto catartico ma che ha scoperchiato un vaso di Pandora colmo di dolore e di miseria come ebbe a dire lo stesso Mark. E l’album ricava dal libro una poetica dolente. È la narrazione musicale di una condotta votata all’autodistruzione che racconta eccessi e cadute, amarezza e fervore, sconfitta e redenzione. Narrazione nella quale Lanegan si fa aiutare da fidi collaboratori, come l’amico Greg Dulli (Gutter Twins, Afghan Whigs e Twilight Singers) o l'ex Led Zeppelin John Paul Jones, Adrian Utley dei Portishead e Warren Ellis dei Bad Seeds di Nick Cave.

E non lasciatevi ingannare dai suoni elettronici, dagli effetti da videogame che affiorano qua e là. La musica di questo album è Blues. Anzi, è Folk-Blues livido, oscuro e tragico. E non poteva essere diversamente. I temi trattati, dolorosi e letali, possono incarnarsi solo nel Blues che trova forma tanto nelle sinistre ballate di frontiera quanto nelle sequenze digitali.

Non tutto risulta perfettamente a fuoco, come l’apertura di “I Wouldn’t Want To Say” con i suoi suoni alla Space Invaders, “Churchbells Ghosts” troppo monocorde o “Internal Hourglass Discussion” anch’essa piuttosto noiosa, le quali sembrano idee appena abbozzate. Tuttavia, Straight Songs Of Sorrow è un disco di grande valore, che si fa apprezzare lentamente. Malgrado la semplicità degli schemi compositivi e degli arrangiamenti è un album che va centellinato ed assaporato in quiete. Un album dotato di ottime canzoni, come il folk agrodolce di “Apples From a Tree” e “The Game of Love”, ballata non convenzionale, cantata insieme alla moglie Shelley Brien, riguardante luci ed ombre del loro rapporto coniugale. “Ketamine” è una delle tracce più belle ed oscure dell’album con il suo andamento blues claudicante e il cantato luttuoso. Ma le vette del disco vengono raggiunte con le successive “Bleed All Over”, “Stockholm City Blues” e “Skeleton Key”. La prima, sebbene sia una composizione crepuscolare, ha un ritmo irresistibile ed un refrain talmente orecchiabile da non sfigurare su un dancefloor e le sue liriche potrebbe riassumere l’intero significato del disco. “Baby, baby, baby/Don’t you say it’s over, yeah/I never wanted to/Baby, baby, baby/I’ma bleed all over, yeah/That’s what it’s comin’ to”. “Stockholm City Blues” è, invece, un brano sofferto e gotico, tipicamente americano e tradizionale, incentrato com’è su un arpeggio di chitarra acustica accompagnato da violino e fisarmonica, in cui Mark rivive i suoi giorni da tossicodipendente allo sbando. “Than I thank my God because I prayed for it/I went to my knees when the medicine hit”. “Skeleton Key”, il singolo estratto dall’album, è sensuale e avvolgente, oscura e calda come un utero da cui rinascere nudi, privi di ogni orpello, purificati e redenti dopo essere precipitati verso il nulla. “I've lost enough to know when I am beaten”. Le drammatiche “Daylight in the Nocturnal House” e “Ballad of a Dying Rover” parlano di dipendenza e cercano una cura per le ferite dell’anima.

Straight Songs Of Sorrow canta di dolore e di perdita, sgranando un rosario di preghiere e rimpianti, scavando a fondo nella miseria, riannodato i fili di un passato devastante, oscillando tra sintetizzatori e tradizione e confermando Lanegan come uno dei grandi cantautori americani contemporanei, al pari di Dylan e Cash.

In fondo a tanta disperazione però troviamo l’invocazione purificatrice di "Eden Lost And Found", declamata come uno Spiritual con sottofondo d’organo e sezione d’archi. “Daylight is comin', Daylight's callin' me”. Traccia finale che ha il potere di rendere Straight Songs Of Sorrow un viaggio raggelante ma anche il resoconto di una rivincita. L’abisso e la redenzione. Schiette canzoni di dolore.

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