Finalmente Piove, perché sembrava quasi impossibile che, nonostante il notevole impegno di associazioni quali NoShoes e Underground Piovese, non si riuscisse a realizzare nel nostro saccense borgo natio una manifestazione musicale di respiro perlomeno provinciale.

Finalmente Piove, perché, dopo le esibizioni di artisti che bazzicano dalle nostre parti anche troppo, tra cui il pur validissimo Herman Medrano e quell’insopportabile ruffiano di Sir Oliver Skardy, è solo nell’ultima serata della rassegna che a calcare il palco si presenta una delle band più rappresentative della nuova scena musicale belpaesana.
Finalmente Piove, perché, dopo la mezzanotte, un forte vento, facendo muovere i teli della spartana scenografia del palco, preannunciava l’imminente arrivo della tanto anelata (in questa lunga estate caldissima) e rinfrescante pioggia, che, quasi per divino intervento, è scesa copiosa dalla fine del concerto per tutta la notte.

L’onore di aprire il conerto spetta ai Melt, trio punk’n’roll da Vicenza (una garanzia, chiedetelo a qualsiasi vicentino ubriaco!): alle 22:40, ora d’inizio esibizione, la zona tra il palco e il mixer è praticamente deserta. I tre vicentini dimostrano di cavarsela egregiamente, e, dopo qualche canzone, qualcuno si avvicina timidamente sedendosi sul prato. Lo stile dei tre ricorda molto quello dei pordenonesi Tre Allegri Ragazzi Morti (a proposito, la casa discografica di Davide Toffolo, “La Tempesta”, ha prodotto anche l’ultimo disco dei Melt, “L’intonarumori” ), con in più qualche spruzzata di noise-rock fornita dalle audaci distorsioni della chitarra di Teno. Le canzoni più incisive sono sicuramente risultate “Elefanti” e la conclusiva “L’intonarumori”, con una lunga coda strumentale. Dopo una mezz’ora abbondante i tre abbandonano il palco: piacevole esibizione, ma dispiace la carenza di pubblico.

Un quarto d’ora di attesa, e finalmente arrivano gli eroi di giornata: i Marta Sui Tubi. Il chitarrista si è tagliato la lunga chioma alla Francesco Renga e sembra molto più vecchio. Speravo che il grosso del pubblico sarebbe arrivato di lì a poco, ma Carmelo e soci fanno a tempo a terminare la canzone d’apertura, “Via Dante”, che la situazione è sempre la stessa: una sessantina di persone sedute davanti al palco, di cui un buon terzo facente parte della mia cumpa.
Ad un certo punto, accade la magia: il cantante Giovanni ci invita ad alzarci e ad avvicinarci alle transenne, e da lì in poi è una festa: noi saltiamo e cantiamo a squarciagola i loro obliqui motivetti (anche se ho avuto l’impressione che io e i miei amici fossimo gli unici a conoscere le loro canzoni!), loro si gasano e tirano fuori tutta la loro carica inventando sul momento uno show coinvolgente e fantasioso, tra emozionanti momenti acustici (“L’abbandono”, “Vecchi difetti”), irripetibili scioglilingua su ritmiche assurde (“Il giorno del mio compleanno”, “Stitichezza cronica”) e momenti di delirio comico (ad un certo punto Giovanni si mette a canticchiare ”applausi, applausi, applausi, applausi per du-du” su una base quasi jazz).

Il synth di Giovanni (che voce, fioei!) interviene sempre a proposito, la chitarra di Carmelo è sempre in primo piano con arpeggi tanto sghembi quanto toccanti, mentre il batterista Ivan, inoperoso in quasi tutti i pezzi di matrice più acustica, si sfoga non appena può (e il caso della bellissima conclusiva “31 lune” con un finale noise-prog quasi alla Sigur Ròs). I tre siciliani se ne vanno, ma noi, non paghi, li invitiamo a tornare sul palco; loro non si fanno pregare, e ci regalano altre due perle: “Perché non pesi niente” e “Post”.
Il concerto è finito, ma noi, ormai lanciati, penetriamo nel pseudo-backstage, riusciamo a scambiare “quattro ciacole” con Carmelo e a farci regalare plettri e bacchette. Altro che stadi colmi di gente! Per fare un conerto con la C maiuscola possono bastare anche venti persone; l’importante è il livello d’empatia che s’instaura tra queste!

The way your heart beats makes all the difference at learning to live” (Dream Theater).

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