Dal mio blog.

Qualcuno ha detto: «Rispetto a Silence, gli altri film dell’ultimo Scorsese appaiono come degli esercizi di stile o poco più». Vero, questa volta il buon Martin ha fatto un lavoro dal peso specifico elevatissimo, un film meditato per trent’anni, dai contenuti impegnativi, per usare un eufemismo. Il cineasta lesse il libro di Endo nel 1988, ma non sapeva bene come farlo e inoltre non era propriamente un soggetto facile da proporre alle case di produzione. Tuttavia, questo lavoro gigantesco appare perfetto anche nel tempismo con cui è stato fatto: con uno Scorsese maturo, espertissimo, impeccabile dal punto di vista formale ma con l’estremo bisogno di tornare a fare film davvero impegnativi. E allora Silence può essere in parte accostato, per peso specifico e impostazione della visione cinematografica, a un’opera come Gangs of New York, perché come quel film dice di più di quello che dice effettivamente, mira a raccontare vicende paradigmatiche, emblematiche di qualcosa di più grande. Se là si costruiva l’epica, con tutte le sue contraddizioni violente, degli Stati Uniti, qui l’obbiettivo è ancora più alto e ambizioso.

Raccontato le vicende dei padri Rodrigues e Garupe nel Giappone del Seicento, Scorsese racconta il realtà molte altre cose, sulla Chiesa, sul Cristianesimo, sulle origini di entrambi, sulla condizione umana, sui conflitti religiosi e sulla loro impossibilità di essere superati, sul rapporto tra potere temporale e spiritualità. E anche di più: nelle vicende dei tanti umili e contadini che intrecciano il percorso dei due padri gesuiti, ma anche nelle loro stesse sorti, ci sono proiezioni della passione di Gesù Cristo stesso, e del rapporto, problematico e irrisolto, tra l’uomo e Dio; in questo film c’è l’uomo. Non riesco a interpretarla in nessun modo la storia di Kichijiro, se non come la rappresentazione simbolica della storia dell’uomo, delle sue continue debolezze, la sua consustanziale fragilità e cionondimeno della sua fede, sempre in bilico eppure sempre pronta a rinnovarsi. Bastano questi pochi accenni a capire la quantità e la qualità dei contenuti: sicuramente il romanzo di Shūsaku Endō deve aver svolto un ruolo fondamentale nello sgranate tanti e tali argomenti.

Ma questo non può sminuire il lavoro fatto da Jay Cocks e dallo stesso Scorsese, che non scriveva un suo film dal 1995 con Casinò. E non è nemmeno un caso che ritorni Jay Cocks, già sceneggiatore di Gangs of New York, col quale Silence ha un’affinità complessiva. La scrittura ha delle imperfezioni, ma veniali a fronte degli enormi meriti. Le parole dei protagonisti assolvono continuamente ai loro bisogni contingenti di tracciare lo scheletro di una vicenda hic et nunc e al contempo postulano questioni generali, delicatissime, senza risposte certe. E allora poco importa se a volte le ripetizioni sono evidenti, se alcuni passaggi provocano ilarità, se non tutti i dialoghi sono perfettamente convincenti: la struttura complessiva è impressionante.

La prima metà del film è splendida, un percorso al limite dell’umano, sia a livello spirituale sia nella dimensione pragmatica dei due padri. Scorsese si muove meravigliosamente negli scenari naturali di Taiwan e Taipei. Il mare, i prati, le nuvole, tutto funziona precisamente alla costruzione diegetica, senza forzature evidenti. Quando ci si sposta in ambienti urbani, la fascinazione viene un po’ meno, ma anche qui gli elementi scenografici continuano ad avere importanti funzioni: dalle sbarre di una cella, alla disposizione dei seggiolini dei giudici giapponesi, agli strumenti di tortura per i cristiani. Scorsese utilizza con massimo profitto i pochi elementi che aveva a disposizione e li riveste tutti di grandi significati simbolici: le barbe, i capelli, i vestiti, le macchie sulla pelle, tutto cambia lentamente e inesorabilmente, col cambiare della situazione e dei propositi di padre Rodrigues. Forse la seconda metà perde qualcosa dal punto di vista registico, perché col complicarsi e il raffinarsi delle questioni religiose e morali, la componente visiva e drammatica della messa in scena tende a lasciare fin troppo spazio alla necessità di spiegare. Non si esagera mai, ma si nota una certa semplificazione nelle inquadrature e nelle costruzioni stilistiche.

Che dire dei personaggi: Kichijiro è una figura emblematica e viene impersonato benissimo da Yōsuke Kubozuka, coi suoi sguardi persi, d’una ingenuità animalesca. Padre Rodrigues è decisamente più complesso e accoglie in sé tutta l’aporia centrale del film: è più giusto restare coerenti con la propria fede e condannare ad atroci sofferenze tanti contadini innocenti, oppure abiurare in apparenza e salvarli da un destino atroce? In ogni caso, il viaggio missionario in Giappone è destinato al fallimento, ma il significato va oltre: di fronte alle alterità insite nelle diverse sensibilità culturali e nelle diverse forme politico-religiose umane, è impossibile ipotizzare una via priva di sofferenza. Il retaggio dell’uomo è dunque questo, l’andare incontro ad un destino di sofferenza, di mortificazione, dell’anima o del corpo.

E anche i personaggi minori sono straordinari: dai poveri contadini condannati che rivivono la passione di Cristo in croce, all’Inquisitore, tratteggiato come personaggio comico per segnalarne la distanza inconciliabile col sentire cristiano e al contempo l’assenza di una vera volontà malvagia. Il suo è un freddo ragionamento, come d’altronde quello di tutti gli esponenti del potere nipponico: i nemici non sono davvero cattivi, ma solo pedine rappresentative di un dramma che è più grande di loro, è dell’umanità tutta. Fino all’interprete (Tadanobu Asano), simbolo della componente più saggia del pensiero dei giapponesi.

Stilisticamente, è ovvio che Silence non rappresenta un momento tipico dello stile di Scorsese; sarebbe stato assurdo pretenderlo. Comunque le scelte sono tutte perfettamente funzionali: dai momenti di silenzio assoluto, all’uso di effetti sonori per dare la sensazione di solitudine, alla fotografia in alcuni passaggi satura e rossastra. Il montaggio blando può sembrare eccessivamente lento, ma è invece fondamentale per sgranare bene tutte le questioni. L’unica nota leggermente stonata arriva a mio modo di vedere nel finale, quando viene fatta una sottolineatura che non era necessaria, soprattutto in un lavoro come questo, che pone domande più che dare risposte.

8/10

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