Ci sono dischi che fermano il tempo, che ti mettono in stand-bye. Rimani immobile a lasciar fluire la musica e le immagini che si muovono nella tua mente. Aspettando solo un cenno, un rientro, ma nulla arriva. Tutto tace, il mondo tace. Musica che racconta, ti racconta, si racconta mischiandosi, imbellettandosi dei tuoi dolori. Musica che da voce a tutto quello che taci pure a te stesso - figuriamoci agli altri - in una catarsi sotterranea e privata. Un viaggio nella mente. La mia mente sono le gialle strisce segnaletiche di Strade Perdute e la macchina che le cavalca è Da Qui. Il pilota sono i Massimo Volume e no, non balleremo più musica di merda.

E non balleremo, non canteremo. Il recitato, le storie narrate da Clementi non lasciano dubbi: lui è il regista, il demiurgo, l’occhio sul mondo; Egle Sommacal lo scenografo, il braccio, il mezzo. Il tutto, ovvero i Massimo Volume e i loro dischi, tanto teatro quanto letteratura. Espressione tanto privata quanto collettiva.

Potevano finire cercando di rifare Lungo i Bordi, un nuovo disco intenso e scorrevole come il primo. Impossibile confrontarsi, meglio dar fondo alle proprie inquietudini e lasciare uscire la musica da sola. Far uscire solo la musica che vuole uscire, ecco Da Qui. Diverso proprio in questo da Lungo i Bordi: spontaneo; nessuna idea prima della realizzazione, qualcuna, forse, solo dopo.

“Da Qui” è un notturno, uno di quei dischi che aumenta il suo valore in maniera esponenziale se ascoltato nei giusti momenti. Di notte, il freddo, tristi, feriti: questi sono i paletti da mettere attorno “Da Qui”, le coordinate entro le quali le parole e la musica si liberano e diventano potenti e credetemi: potenti lo possono diventare sul serio. Attenti alle teste di maiale.

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