Se c’era una carenza e un possibile limite nella proposta musicale solidissima di questa band, andavano forse ricercati nella scelta di fare canzoni che non respiravano e non facevano respirare. I Mastodon in questi quindic'anni non hanno quasi mai dato tregua ai ritmi, non hanno quasi mai rallentato la loro corsa. Alla lunga anche la musica metal ha bisogno di respirare, di guardarsi dentro. Con Crack the Skye c’era stata la più notevole apertura a strutture ampie, ma il ritmo è sempre stato frenetico, salvo alcuni passaggi. Diciamolo meglio, il nucleo stilistico dei pezzi corrispondeva sempre alle accelerate, ai turbinii più impetuosi.

Per una band che fa dei tempi di batteria frenetici (o anche erratici) uno dei suoi capisaldi, un disco come questo Cold Dark Place rappresenta il definitivo superamento dell’adolescenza, della fase da virtuosi con il cazzo duro a tutti i costi. Ed è quindi l’approdo a una dimensione finalmente cantautorale, umana, più umorale e meno performativa.

Ci voleva un EP che è in realtà del chitarrista Brent Hinds, forse il vero genio assoluto della formazione. Un rock-metal strimpellato al chiaro di luna, nero e perso in un bosco intricatissimo, come raffigurato nella magnifica copertina di Richey Beckett. Nelle composizioni di Hinds si sono inseriti gli altri tre, dimostrando di saper anche lavorare di fino, aggiungendo spessore e solidità al suono dei brani senza doparli.

È questo che mi ha colpito, soprattutto: i mastodonti, che fin dal nome hanno voluto mettere in evidenza la loro potenza pachidermica, ormai non fanno più nulla per nascondere la loro fragilità. È un’umanità dolente, ferita, quella che Hinds canta con il suo inconfondibile timbro aspro. È amore deluso, è senso di solitudine e gelo. È un incontro a quattrocchi con la bestia: «I walk alone, into the darkness / I came toe to toe and face to face with the beast».

Il percorso nel dolore aveva già avuto un prodromo importante nel disco di questa primavera. In Jaguar God si verificava un altro incontro di questo tipo: «It's right in front of me / The throne of maladies / It's right in front of me / Your malignancy». Ma alle parole non corrispondeva un percorso musicale di simile apertura alla fragilità.

Emperor of Sand è un disco quasi perfetto, a mio modo di vedere, ma è un disco performativo, studiato, pensato, soprattutto dal punto di vista del comparto musicale. Questo è l’opposto, è un canto che arriva davvero dal sentire umano di un musicista, che abbozza quattro accordi e poi ci cesella intorno dei brani veri e propri, ma che mantengono il rispetto necessario per il mood iniziale. È davvero notevole, perché questo tono dimesso resta percettibile pur essendo presenti riff, ritmi, cambi di tempo, incroci di voci e così via. E assoli che vengono sputati fuori dalla chitarra con tanta rabbia. Insomma, ci sono tutti gli elementi che hanno reso celebri i Mastodon ma riformulati in una veste finalmente nuova, da rock classico e cantautorale, che ha qualcosa da dire, una scintilla di sentimento da far passare, più che il bisogno di mostrare i muscoli della tecnica, cosa che in tante band sanno fare.

Nel brano che dà il titolo al disco si respira un aree scurissimo, da incubo medievale. Pochi pizzichi alle corde della chitarra, eco sinistri, riverberi. I Mastodon adolescenti avrebbero imposto un cambio repentino a metà, una sfuriata di batteria e tanti riff. Invece questa volta va diversamente: il cuore pulsante della canzone è nelle atmosfere, nelle discese abissali, nelle vertigini da horror vacui, nei cori quasi ecclesiastici. È quello il quid essenziale. La chitarra elettrica irrompe solo alla fine, come una benedizione, una catarsi che senza la tragedia precedente sarebbe risultata insignificante.

Elenco tracce e video

01   North Side Star (06:10)

02   Blue Walsh (05:12)

03   Toe To Toes (04:29)

04   Cold Dark Place (05:59)

Carico i commenti...  con calma