Si parla pochissimo, quasi mai, dell'esordio, datato 1978, di Mauro Pagani. Un vero peccato, perchè il disco, che ho riascoltato di recente dopo anni di colpevole dimenticanza, è un capolavoro, o quasi. Andiamo per ordine.

Pagani lascia la PFM nel 1977, perdita notevole per il gruppo, che da qui in poi perderà molto, se non tutto, del proprio smalto, complice anche il fatto che il "fuggitivo" era, ed è, un polistrumentista come pochi ce ne sono in Italia, e forse nel mondo. Dopo un abbondante dose di ricerche circa i suoni del Mediterraneo (lavorando, senza saperlo, a quel suono che sarebbe stato poi al centro del capodopera de andreiano "Creuza de ma", che di Pagani porta qualcosa in più che la firma) incide nel 1978 il suo primo album solista. Che poi tanto solista non è, a ben vedere, anche se compare lui e il suo nome in copertina, ma tra le collaborazioni appaiono gente come Di Cioccio, Djivas e Mussida (in pratica la PFM); Teresa De Sio; Minieri e Vivaldi direttamente dal Canzoniere del Lazio; Roberto Colombo e Walter Calloni e tutti i componenti degli Area. In pratica, il gotha della musica italiana meno allineata possibile.

L'album è quasi tutto uno strumentale, in cui Pagani suona di tutto, dal bozouki al flauto di canna, dal mandolino alla viola, e in cui i suoni del Mediterraneo fanno capolino all'interno di musiche dal sapore, appunto, esotico.

La facciata A è un caleidoscopio di suoni e di ritmi tesi ed incalzanti, quella "world music" di cui Pagani è sempre stato maestro assoluto. Dal barocco italianissimo dell'apertura di "Europa minor" alla tradizione napoletana di "Argiento", fino alla conclusione de "La città aromatica" che potrebbe essere benissimo la colonna sonora di un film: ascoltandola si dipanano nella mente dell'ascoltatore una serie di immagini esotiche che rimandano all'India e all'Oriente, alle spezie e ai romanzi di Kipling. Ed è proprio questo mix di generi, dalla musica popolare a quella mediorentale, dalla fusion al jazz-rock, che è l'architrave su cui poggia l'intera operazione discografica, un azzardo che diventerà (quasi) magico con il brano d'apertura della seconda facciata.

"L'albero di canto", diviso in due parti (la seconda chiuderà l'album), è un brano clamoroso, fra gli esperimenti più azzardati fatti in Italia. Su uno strumentale di violino (Pagani), batteria (Capiozzo), pianoforte (Fariselli), contrabbasso (Tavolazzi), s'innesta la voce di Demetrio Stratos il quale, benchè non pronunci nemmeno mezza parola, utilizzando la propria voce come fosse uno strumento musicale asseconda le linee melodiche del brano creando un'atmosfera a metà tra il magico e l'esotico come poche altre volte, anzi mai prego, si era sentito in Italia. Ciò che seguirà è forse un po' meno geniale del suddetto brano, il successivo "Choron" mi è sempre sembrato il brano meno efficace del lotto, ma "Da qualche parte fra la Calabria e Corfù il blu comincia davvero" è un piccolo capolavoro di suoni fusion tanto cari agli Area.

Il suono, ecco, il suono, già, visto che l'album suona così pulito e perfetto, senza nemmeno una sbavatura, veloce e senza fronzoli (dura solo 35 minuti), deve la propria pulizia e la propria essenzialità anche, e soprattutto, ai tecnici del suono chiamati per l'occasione: Allan Goldberg, Carlo Martenet, Marco Inzadi e lo storico tecnico della Cramps (ancora loro, gli Area!) Piero Bravin.

Fu distribuito dall'etichetta Ascolto, fondata da Caterina Caselli l'anno precedente. Etichetta coraggiosa (produsse tra gli altri gli stessi Area, Gian Piero Alloisio, Faust'o) ma chiuse presto, nel 1980. Non c'era spazio per questa, e certa, musica, dato che fu la scarsezza di risultati economici a decretarne la fine.

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