I miglior film, quelli che hanno fatto la storia del cinema e che sono entrati nella storia, spesso hanno vissuto una fase embrionale tormentata. Il più delle volte viene naturale tirare in ballo il destino, dato che soltanto alcune coincidenze o la perseveranza dei singoli, hanno evitato che un capolavoro non fosse consegnato alla storia. "Frankenstein Junior" non fa eccezione. Che Mel Brooks sia un genio della regia, della produzione e di tante altre cose che gravitano intorno alla settima arte e al teatro, è indubbio. E in quel lontano 1974, leggendo il suo nome accanto al titolo di questo film, avremmo potuto pensare subito a una geniale idea fulminante, prerogativa unica del novantaseienne premio Oscar. E invece no. O non del tutto, quantomeno.

Se Peter Boyle è riuscito ad indossare i panni del mostro non morto, il merito è soprattutto di Gene Wilder, della sua insistenza e della sua perseveranza. Una volta raggiunto il successo nel 1972 (dopo svariati episodi fallimentari) grazie alla pellicola di Woody Allen “Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso (ma non avete mai osato chiedere)”, il buon Gene fu solleticato dall’idea di creare una sceneggiatura tutta sua intorno alla figura del nipote del dottor Frankenstein. Mentre il copione prendeva vita, il suo agente, Mike Medavoy, acquisì due nuovi clienti, Marty Feldman e Peter Boyle, che vennero subito ritenuti adatti al progetto. Cosa condivisa anche da Wilder, che li tenne in considerazione. Mel Brooks, al quale era stata già inoltrata la proposta, la respinse subito, in primis perché riteneva che il panorama cinematografico fosse già saturo di film dedicati a Frankenstein. Fu la sopracitata insistenza di Wilder a convincere il regista, che si propose subito alla Columbia Pictures, che concesse un budget non all’altezza delle richieste di Brooks e che spinse in definitiva lui e Wilder a firmare con la 20th Century Fox un contratto esclusivo di collaborazione quinquennale.

Concepito come rivisitazione parodistica del romanzo horror gotico di Mary Shelley, Frankenstein Junior si ispira al lungometraggio di James Whale del 1931, da sempre capostipite dell’intera filmografica dedicata al mostro. L’utilizzo del bianco e nero e della fotografia che si rifà alle pellicole anni Trenta, rientra nelle scelte fatte per ricondurre il film a quello di Whale, che ha fornito peraltro oggetti originali di scena, utilizzati da Mel Brooks per le riprese.

Ciò che rende unico nel suo genere questo film, al di là della presenza di veri fuoriclasse della recitazione, è la capacità di rendere esilarante la già caricaturale e parodistica rivisitazione di ambienti tetri e situazioni sinistre. Partendo dall’inizio del viaggio verso la Romania, dove abbiamo scampoli di pura comicità durante il saluto con il gomito tra il dott. Frederick von Frankenstein e la fidanzata snob Elizabeth, veniamo catapultati in tutt’altra realtà. Fa da paracadute, nel passaggio tra commedia e “horror”, la presenza del servitore Igor (o “Aigor” ndr), che con il suo strabismo e gli occhi pallati sporgenti, la gobba prominente e il fare scherzoso (termine fin riduttivo), accompagna il nuovo padrone e tutto il pubblico in sala dentro il castello del conte Victor. Le due figure femminili, Frau Blücher (dite la verità, avete sentito i cavalli) e Inga, una molto fredda ed enigmatica, l’altra gentile, accomodante e un po’ svampita (otre che a suo modo provocante) ci danno modo fin da subito di capire per chi vogliamo parteggiare.

Impossibile non associare a qualsiasi candela e candelabro la scena della libreria girevole che porta alla stanza segreta. Quante volte abbiamo ripetuto a denti stretti e trattenendo il sorriso la frase:“Rimetta…a posto…la…candela!” O citato entusiasti (neanche ne fossimo padri putativi) la battuta:“Lupo ululà, castello ululì!” E ultima ma non ultima: “Si…può…fare!”, la traduzione dalla lingua originale di un meno musicale “IT…could…work!” (letteralmente, “potrebbe funzionare!”).

Sono gli atteggiamenti contrapposti a farla da padrone durante l’intera narrazione. La fase di totale rifiuto di Frederick verso la figura del nonno (tanto da volerne storpiare il nome per non essere a lui riconducibile in alcun modo) il conte Victor von Frankenstein, e verso le sue teorie scientifiche ritenute assurde, si trasforma poco dopo in totale accettazione e addirittura in determinata motivazione. Viaggia parallelo il rapporto con Frau Blücher, inizialmente fatto di studio e diffidenza e divenuto poi collaborativo, nonostante la scoperta fatta sulla relazione che la donna aveva intrattenuto anni prima con nonno Victor.

L’altezzosità che diventa irriverenza, la serietà che si spoglia e si riveste di comicità pura. Sono questi gli ingredienti principali e micidiali.

Inga ed Elizabeth, così lontane e diverse tra loro, alla fine risultano essere molto simili. La prima già comica di suo, la seconda ancora più divertente, dietro quel fare fastidiosamente snob e distaccato, che di fatto la rende la caricatura della più effimera donna aristocratica.

Igor è un mitragliatore di battute e citazioni e con quel suo aspetto tanto sinistro quanto divertente, diventa a tratti il vero protagonista della storia, relegando il suo padrone a valorosa spalla. Come non ridere e mettersi le mani nei capelli durante l’astuto scambio di cervelli e la scena del tentato strangolamento che ne consegue. Cose davvero abnormi, verrebbe da dire. Marty Feldman ha clamorosamente le “physique du role” e un’alternativa avrebbe sicuramente richiesto molto trucco e molta preparazione, al netto di una gobba finta rubata ad una finta pancia da abito premaman. Anche Peter Boyle, il “mago” di Taxi Driver, è perfetto nel ruolo de “La Creatura”, con il suo metro e novanta di altezza, le grandi mani e la fronte prominente.

La parte finale della vicenda assume ancora di più le sembianze della commedia alla Mel Brooks. La nascita dell’improbabile amore tra Elizabeth (ormai comprovata ex del dott.Frankenstein) e La Creatura e la maliziosa considerazione in merito alle enormi doti del madostodontico mostro, rendono tutto altamente surreale ed incredibilmente divertente. Fino al tentativo finale di Frederick di infondere saggezza al cervello abnorme, provando a trasferire un po’ di materia grigia partendo dal suo. Con il risultato che nessuno si aspetterebbe. Mal comune, mezzo (metro) gaudio, verrebbe da dire.

In questi giorni il film è tornato nelle sale con la versione restauratain occasione del cinquantennale. Solo pochi giorni per rivedere sul grande schermo un lungometraggio che da mezzo secolo è prerogativa della televisione o più frequentemente dell’home video. Quel segmento che in Italia vede Frankenstein Junior al primo posto assoluto tra i titoli più apprezzati in videocassetta prima e ora in Dvd e Blu Ray. Una copia del film è conservata presso la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti d’America. Il riconoscimento massimo, tra gli altri, per quello che Mel Brooks ha definito suo miglior lavoro in qualità di sceneggiatore e regista. Ma non il più divertente, sempre a sua detta. Chissà gli altri, verrebbe da dire, se non li conoscessimo.

Alla fine vediamola così:

Poteva andare peggio. Poteva piovere.

Carico i commenti... con calma