Narra la storiografia rock che i Melvins scelsero la loro ragione sociale in onore di uno sfortunato ladro di alberi di natale in quel di Aberdeen, tale Melvin. Tale aneddoto è un po' sintomatico del vuoto culturale e della spaventosa recessione economica che attanagliarono il North West americano negli anni 80, fattore che ebbe un ruolo decisivo nel cesellare la fenomenale espressività della scena di Seattle.
In quella scena i Melvins furono accostati fondamentalmente per i noti rapporti con il loro ex-roadie e concittadino Kurt Cobain. Troppo peculiare era il loro modo di recuperare i Black Sabbath, i Flipper e persino i Kiss in una ossessiva miscela minimal-metal talmente lercia e micidiale, nonostante sbalzi qualitativi notevoli tra un album e l'altro, da estendere la sua influenza ben oltre la morte creativa del grunge, ispirando una pletora di band, dai Boris ai Sunn O))) fino a certo stoner.

"Lysol" è l'ultimo album prima dell'approdo major della band di King Buzzo e Dale Crover: come poi sperassero di farci dei soldi rimane un mistero, ma almeno resta la felice constatazione che uno dei benefici di "Nevermind" fu la visibilità data alle migliori proposte dell'underground. Il lisolo cui allude il titolo è un particolare e velenoso disinfettante, quasi il modo di una mente malata come King Buzzo di suturare le lancinanti ferite inferte dalle sue contorte, involute e intricatissime spirali chitarristiche alla carcassa del metal, mentre il suo degno compare Crover si alterna sistematicamente tra plumbei rimbombi di tom e rullate a doppia cassa.

La musica rimane quasi sempre di difficile ascolto, a cominciare dall'opener "Hung Bunny", undici minuti di anti-materia tra pesantezza e leggiadria inscindibilmente legati. E il resto non è da meno: terrificanti grumi di mostruosità in stato di agonia, ma allo stesso tempo spaventosamente vivi. L'equivalente in musica di un quadro di Francis Bacon, in altre parole: un'esplosione di corpi cerebrali dalle cadenze moviolistiche dentro una gabbia di terrore, solitudine e sofferenza, fino a lambire un doom sui generis, slabbrato dall'uso tortuoso e rallentato del feedback, come nell'estenuante "With teeth",  fino ai Flipper centrifugati nell'elettrica stasi di "Sacrifice". Sembra incredibile, ma questa fanfara mortuaria di rumore estremistico originata da un branco di perdenti ubriaconi e ignoranti, era davvero perfetta per costruire un incubo tra i più affascinanti all'inizio degli anni Novanta.

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