Una volta sono andata a Pistoia a un concerto dei National.

"E che c'entra?", diranno i miei giovani lettori.

Dicevo, una volta sono andata a Pistoia a un concerto dei National e metà concerto l'hanno passato a fare canzoni nuove di un disco che non era ancora uscito.

Che palle: la gente si girava con le spalle al palco, chiacchierava, andava a prendersi una birra a 6 euro, ne versava la metà sulla via del ritorno, bestemmiava. Però sì, non c'era l'entusiasmo che dava una “Pink Rabbits” (con tanto di flash mob) o i brividini di una “About Today”.

Vabbè, in generale me lo ricordo come un concerto abbastanza tiepidino, a tratti noioso, tant’è che il disco che è uscito dopo credo di non averlo manco ascoltato. Comunque questo fatto mi aveva dato da pensare: forse a molti concerti non ci si va davvero per ascoltare il gruppo, ma per portarsi il souvenir della canzone preferita a casa, magari annacquare un po’ la birra troppo cara di cui sopra con due lacrimucce. O magari sono solo io, non so. Oppure ancora, in quel caso davvero le canzoni nuove non lasciavano il segno e basta.

“Ma quindi che c’entra Micah P. comesilegge?”, insisteranno i miei attenti seguaci.

Micah P. Hinson l’avevo invece visto nel 2018 a Padova: era stato un regalo pre-natalizio inaspettatissimo dal mio dolce metò. Era un concerto che speravo di vedere da anni, e non sapevo neanche che quella sera suonasse lì. Comunque, se ci penso, mi viene in mente una serata freddissima, non solo perché eravamo al chiuso ma si doveva stare col cappotto, ma anche perché c’era poca gente in un capannone enorme e tutto sommato disinteressata.

Eppure Micah ha perle rare nel suo repertorio e una voce profondissima che ti stende. E infatti avevo pianto su “The Day The Volume Won” e non mi vergogno a dirlo, e credo che ci fosse stata anche una pericolosissima “Drift Off to Sleep”, oltre alla bellissima “Beneath The Rose”. Però boh, si vedeva che lui non era per niente ispirato, cercava di dire qualcosa tra una canzone e l’altra, ci aveva pure parlato dei suoi fucili (texani…), del fatto che scambiavano la moglie per sua madre e cose così. Però non trovava l’interazione, forse la gente neanche capiva l’inglese. A una sua richiesta di richieste dal pubblico, io sono stata troppo timida per chiedergli “The Day that Texas Sank eccetera”, dal mio disco preferito, e me ne pento ancora adesso.

Al contrario dei National, quella me la ricordo come una bella serata, però in un certo senso amara, monca. Del resto, forse ci aspettiamo sempre che quelli che andiamo a sentire siano sempre belli e pimpanti e/o tristissimi, a seconda del genere, e che ci strappino il cuore o le mutande, sempre a seconda del genere.

“Ma quindi che c’entra Villa Manin?”
E che cacacazzi che siete, miei petulanti compagni.

Ve lo dico chiaro e tondo e senza esagerare: Micah P. Hinson a Villa Manin penso sia stato uno dei concerti più belli, intimi e intensi che abbia mai visto.

Una parte sicuramente ce l’avranno avuta la villa cinquecentesca alle nostre spalle, i pini di fronte al parco sotto cui ci siamo seduti, le cicale del tardo pomeriggio, il caldo non troppo caldo, un tramonto. E buona parte del merito è stata dovuta all’assenza di un altro cantautore italiano insipidino che doveva occupare metà del concerto ma che alla fine si è ammalato.

Micah, questa volta, ispirato lo era. Tantissimo. Si è seduto, vestito di bianco, con un cappello texano e una treccia improbabile, sul palco, con una chitarra che stava su con lo scotch, ed è subito partito con una ninna nanna, delle tante che ha scritto, che ha zittito (quasi) tutto il pubblico. Non la conosco: è del disco nuovo, ci dice poi, e dal disco che sta per uscire tira fuori anche altre canzoni. Belle, tutte: parlano di un Dio che non c’è, di Gesù che ha deluso, di una gioventù che è passata, anche se Micah non è poi così vecchio. Di sicuro lo hanno segnato i dodici anni in compagnia dell’eroina, un divorzio di cui ci racconta qualcosa (sì, la famosa Ashley…), un’educazione troppo cristiana, e la pandemia su cui torna nelle molte chiacchiere che fa tra una canzone e l’altra. Parla tanto, racconta un sacco di cose, che è una cosa che a me piace un sacco. Parla anche della serata precedente in cui il pubblico lo aveva praticamente ignorato e si stupisce che invece molte persone presenti abbiano fatto diversi chilometri per vederlo quella sera, ed è sinceramente grato. E intanto mette nel bocchino una sigaretta dopo l’altra.

Comunque si vede che sta bene, lo vedo meglio che nel 2018, e lo conferma anche lui a parole, e con canzoni che alimentano le aspettative sul lavoro che sta per uscire e che non vedo l’ora di avere nelle orecchie.

Oltre al nuovo, qualche cover: una “Tinsel Towns” di Destroyer che non conoscevo (e l’originale che poi sono andata a cercarmi non mi è piaciuta), “To Ramona” di Bob Dylan, la tradizionale “500 Miles” in chiusura.

E poi, delle sue, spiccano “Take off that Dress for Me”, “God is Good”. Risento di nuovo anche “Beneath The Rose”, anche se ci dice che a lui per molto tempo non è piaciuta, “Drift Off to Sleep” e un’altra ninna nanna (“A Million Light Years”).

Ci interessa che non ci sia l’impiantone con le luci? Direi di no.

Ce ne frega che gli si scordi la chitarra in continuazione? Ancora meno.

E che gli si rompe la voce ogni tanto? Figurati, è ancora più bella.

Ma "The Day That Texas eccetera" l'ha fatta? Purtroppo no, ma pazienza.

Niente hanno potuto neanche la puzza di Autan, gli aghi di pino che pungevano dai jeans, i bambini al pascolo urlanti a un concerto acustico… No, in effetti quelli mi hanno fatto quasi rendere onore al nome della città in cui ci trovavamo, ma vi lascerò i miei piani per l’estinzione del genere umano per un’altra recensione.

Insomma, se non si è capito: bellissimo.

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