I Mice Parade sono un lampante esempio di come sia possibile trasporre musicalmente l’equazione enologica: più invecchia il vino, più è buono.
Non occorre essere dei sommelier per apprezzare i loro otto album incisi in dodici anni di carriera. L’anagramma del talentuoso percussionista front-man Adam Pierce non ha solamente esplorato i più disparati generi e culture musicali (noise, ambient, post-rock, afro, latin, far east music…), ha soprattutto saputo conferire un unico sapore evocativo alle proprie composizioni.
In questo “What it Means to be Left Handed” la band della grande mela riprende il filo del precedente omonimo lavoro, contraddistinto dall’assoluta libertà di movimento all’interno dell’universo musicale.
E’ proprio l’assenza d’inibizioni ciò che meglio rappresenta questo disco. I Mice Parade hanno qui perfezionato l’abilità di creare melodie evasive che esulano dagli schemi.
Non è dunque “solo” libertà di viaggiare, in tutti i sensi, attraverso la musica. E’ anche capacità di spaziare con imprevedibile grazia tra armonie corali, intimi minimalismi, sonorità creative e mutevoli, in qualche modo familiari eppure sempre curiose.
L’unica costante del gruppo negli anni sembra essere il raffinato impianto ritmico di Adam, a suo agio in tutti i generi affrontati.
La prima coloratissima cartolina, “Kupanda”, arriva dall’Africa subequatoriale dei grandi laghi armata di chitarre festose. “In Between Times” è nel segno di un folk-rock celtico che alterna sonorità dream ad un rock corale. “Do Your Eyes See Sparkles” è un soffuso pop a passo di flamenco, ballabile quanto nostalgico. L’estrema intensità emotiva di questi brani d’apertura rimane impressa anche grazie all’interpretazione dimessa e struggente delle voci femminili.
“Couches & Carpets” si muove in territori sondati da Sufjan Stevens. “Recover” è divisa in due parti: la prima, più breve, è un preludio che richiama l’acustico dei Death Cab For a Cutie; la seconda è un meraviglioso crescendo pop, degno degli Stars di “Set Yourself On Fire”. “Old Hat” è un labirinto di arpeggi con una patina dark. “Mallo Cup” dei Lemonheads è la prima delle due cover, interpretata in chiave nostalgic-punk a là Dinosaur Jr., mentre la successiva “Even” ricorda le composizioni post-grunge di Dave Grohl.
E’ poi la volta di altre due cartoline. La prima, sotto forma di stralunato ambient-pop, arriva dal Giappone: “Tokyo Late Night”. La seconda, “Fortune Of Folly”, irrompe dal carnevale di Rio e vorrebbe spegnersi in un convulso shoegazing, salvo riprendere il passo di samba al fotofinish. La cover finale di “Mary Anne” (Tom Brosseau) ci rimanda ai primi Notwist, con l’intensità dei Grandaddy sul finale.
E’ buffo stupirsi nel trovare parecchi riferimenti in un disco come questo. La peculiarità dei Mice Parade è anche questa: saper dosare con stile l’eterogeneità delle melodie confondendo le carte in tavola.
Dove si fermerà il mappamondo al prossimo giro?
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