Quello che la critica battezzerà come uno dei più eleganti e raffinati sestetti della storia del jazz si riunisce, fra marzo (il 2) e aprile (il 22) del 1959, in uno studio della Columbia records ricavato in una ex-chiesa ortodossa della trentesima strada est a Manhattan, per due sessioni nelle quali la linea generale è quella dell'abbadono totale degli accordi a favore della più ampia libertà di improvvisazione su scale modali che per la prima volta illuminano a pieno il panorama jazz dell'epoca, dopo gli accenni di Milestones, primo esempio di musica modale.
Ne esce un imperdibile e commovente lavoro, di cui un anno fa è apparsa l'edizione Sony/Bmg Legacy nel formato dual disc, venduto in milioni di copie in tutto il mondo e che per alcuni critici rappresenta la vera e propria Bibbia che ogni appassionato dovrebbe conoscere.
L'alchimia perfetta fra i singoli componenti che Miles Davis ha riunito attorno a se pare davvero un miracolo se si pensa che in alcuni casi sono stati sufficienti pochi "take" per varare l'edizione del brano inciso sul disco ("All blues" andò bene al primo tentativo). Dicevo dei componenti, alcuni dei quali erano stati lanciati dal successo di Miles ahead, sempre più affiatati dalle fitte esibizioni dal vivo nel 1958, rappresentavano il non plus ultra per ogni singolo strumento; basti pensare alla base ritmica con Jimmy Cobb (il batterista, unico ancora in vita del sestetto) e Paul Chambers, il giovane e, allora, già promettentissimo bassista, erede di Oscar Pettiford, che dà il "la" al primo brano del disco con un ritmo semplice e severo sul quale si inesteranno tutti gli assolo del pezzo; ai fiati che vedono all'opera il grande John Coltrane al sax tenore, anch'egli giovane e alla vigila del suo mitico "A love supreme" e al sax alto Julian "Cannonball" Adderley; al piano che vede alternarsi l'affermato e già idolatrato Bill Evans, per il quale Miles ammise di avere "progettato l'album sul suo stile pianistico", e Wynton Kelly, che all'epoca era il pianista ufficiale ma che qui fa una sola apparizione sostituendo Evans in "Freddie Freeloader".
E poi c'è LUI, Miles Davis con la sua tromba, musicista già carismatico, sicuro di se, che aveva alle spalle diversi brillanti lavori e che ormai assurgeva velocemente al rango di vera e propria star del firmamento jazz. Insomma in quei giorni del '59 si riuniva un ensemble esplosivo, potenzialmente in grado di fare di tutto, che finì per dare alla luce un qualcosa di veramente innovativo e diverso. Il disco è composto da 5 pezzi (a parte l'alternative take di "Flamenco Sketches"), quattro dei quali composti da Miles; soltanto "Blue in Green" è stato composto da Bill Evans che, nelle note di copertina originali, afferma di avere composto con Miles anche "Flamenco Sketches" .
L'incipit dell'album è "So what", forse il pezzo più noto e famoso del disco, di una trasparenza compositiva assoluta, con una introduzione definita da molti critici "sognante", prima del vero e proprio tema di apertura di Davis (riconosciuto da tutta la critica come il momento di più elevata improvvisazione del disco) seguito, sulla base pianistica e ritmica, prima dagli assolo di sax di Coltrane e Canonball che vagano in un mondo senza accordi (più frammentato il tenore rispetto al più melodico alto), poi da quello di Evans che pennella le sue note sfumate in accordi che contrappuntisticamente risuonano con i fiati, per poi lasciare brevemente spazio a Chambers che riespone il tema, con il pianista che lo accompagna fino alla cesura, improvvisa, del pezzo. "Freddie Freeloader", ispirato ad un barista di Philadelphia che campava con le mance e scroccava tutto il possibile (freeloader, scroccone), viene definito da Evans "Blues di dodici battute, ravvivato da un carattere melodico" e mette in evidenza le caratteristiche di pienezza sonora, di vivacità di Kelly che apre con il suo distensivo e elegante assolo il pezzo, cui segue la tromba di Miles Davis che dà uno sprint al tono distensivo del pezzo con le sue impennate spumeggianti fino al punto in cui, cambiando di tono, si riallinea al piano di Kelly, prima che entri con la sua irruenza Coltrane, che segue il ritmo del brano senza quei cambi armonici che gli erano tipici in queli periodo. Cannonball segue Coltrane agganciandosi quasi fosse la continuazione del primo, rendendo difficile all'ascoltatore capire quando è entrato.
"Blue in green" è forse la gemma del disco, un delicato pezzo in cui si sussegono, secondo uno schema di accordi (viene abbandonata l'impostazione modale), gli assolo dei diversi strumentisti, dalla tromba di Davis, sulle note di Evans che aveva introdotto il tema con le famose quattro ariose battute ripreso nel suo assolo, poi seguito da Coltrane, ancora da Evans e nuovamente da Davis, per un brano che giustamente rasenta lo stile minimalistico e puro, al limite del poetica ermetica. "All blues", ultimo pezzo registrato in aprile, ha come base un riff di sottofondo sul quale girano poi tutti i diversi strumentisti, con il piano e la batteria che stabiliscono il ritmo prima che arrivino i fiati a delineare le proprie plastiche melodie (Chambers cambia le bacchette quando Miles fa il secondo assolo). Fondamentale il ruolo di Bille Evans in questo pezzo, caratterizzandone l'aspetto modale nel contrappunto con Coltrane. Infine "Flamenco Sketches" è un esempio di raggiunto equilibrio fra imrpovvisazione, eleganza, misura e alternanza che vede nell'assolo di Coltrane il pendant dell'assolo di Davis in "So what", sia pure su toni più soffusi e eleganti.
Insomma, un disco da non perdere, studiare, sentire e risentire, per il quale è anche divertente cerca di scaricare il "making of" che si trova in rete, per poi leggere il bellissimo libro di Ashley Kahn che ripercorre la storia di questo capolavoro assoluto.
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