Qualche anima bella ha blaterato che ormai potrei stroncare “Kind of blue” del divino Miles Davis. E quando 2 o 3 di questi caproni vedranno il link a questa recensione, si precipiteranno con le loro bocche bavose, rosicando per il modo in cui smerdo i loro idoletti (ma non hanno altro da fare che leggermi, se faccio così schifo?).

Povere merdacce: secondo qualche residuato tossico anni 90 dischi come 'Ok computer' o 'Mellon Collie' valgono quanto “Kind of blue” … beata ignoranza. Lasciamo perdere queste miserie e veniamo al grande Miles.

Questo non è il suo capolavoro (“Bitches brew” gli è certamente superiore, e probabilmente anche “In a silent way), ma notoriamente è il più famoso disco della storia del jazz. Il perché è presto detto, cazzo! Una band di fottutissime star, a partire da Coltrane al sax tenore per finire a Jimmy Cobb alla batteria affianca superbamente la leggendaria tromba di Miles. Il risultato? 5 composizioni spaventosamente belle, prevalentemente giocate sulle aperture dell’ improvvisazione modale, e che grondano sensualità in ogni nota.

Blue in green” per cominciare alla grande, ballata avvolta da un sanguigno lirismo con il biancuzzo Bill Evans che regala orgasmi pianistici da delirio. ”Flamenco sketches”, incredibilmente complessa nella sua circolarità. Sembra di stare soli in una notte piovosa, e a tenerti vivo arriva uno dei più grandi assoli di Miles. “So what” è il primo pezzo in scaletta, ha soprattutto QUEL giro di basso di Paul Cambers e gioca su un‘atmosfera molto levigata (in particolare grazie al drumming di Cobb, molto modal jazz) e si fa notare per l’iiiiiiiincredibile coesione di tutti i geniali fighetti chiamati a suonare (tenuti a bada da Miles Von Karajan).

Pazzesca pure “All blues”, rivoluzionaria con il suo elegante andamento dispari. Infine “Freddie freeloader”, sicuramente la più famosa del lotto, con passaggio pianistico moooolto bluesy (è Wynton Kelly a suonare però) che spiana la strada agli assoli di Coltrane e Davis, di prammatica dicotomici: di preziosa e raffinata sintesi quelli di Miles, torrenziali quelli di John. Insomma, everything in its right place, citando il vostro amato Thom Yorke: quel fottuto, immarcescibile marchio della tromba, la peculiare disposizione dei voicings nell’accompagnamento pianistico, la ritmica che è rimasta pietra miliare per tutti gli album jazz a venire.

Che è il più grande disco per scopare che sia mai stato concepito sul pianeta terra lo devo poi proprio dire?

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