Misthaven, la band del “non pensavo potesse accadere, non qui”.

Già. Perchè è davvero surreale credere che un progetto del genere possa nascere nell'entroterra meridionale italiano, varcare le barriere del Matese, e spingersi al di là dei confini della penisola, fino a presentarsi, come un ologramma, persino oltreoceano.
Sembra quasi un racconto di fantasia, ma per la giovanissima band campobassana non è altro che la realtà, che prende forma attraverso note e immagini suggestive.

Formatisi a Campobasso nel non troppo distante 2014, i Misthaven vantano alle spalle già ben tre piccole produzioni (Born Among The Ashes, e le firmate Bleed e Newborn, ndr) e numerosissimi airplay radio a livello nazionale ed internazionale, che hanno aperto loro la strada verso la realizzazione di questo nuovissimo Aces.

Ironia della sorte, Aces è davvero un poker d'assi. Una vittoria su ogni versante, quella di un debut album che sa già di produzione matura, libera d'esprimersi senza bisogno di dare spiegazioni d'alcun tipo. Aces, infatti, parla da sé, a partire dall'evocativa cover: un asso di cuori, la carta migliore del gioco, che simboleggia tutto quel che ha a che fare con la sfera emotiva. Ed effettivamente, volendosi soffermare sulle lyrics, non stupisce che dietro la veste allegorica, si possa trovare un significato ben più radicato nelle esperienze e nei sentimenti che, prima o poi, tutti affrontano nella vita.

Dieci le tracce che compongono questo nuovissimo album, interamente autoprodotto e distribuito negli store digitali dalla band che, sin dagli esordi, è stata accostata, per sound, per atmosfera e per la presenza di una scura voce femminile, agli Evanescence, e che, nonostante la responsabilità di un'etichetta dal peso non indifferente, riesce a non deludere dinanzi alla prova più importante.

Ciò che c'è di più peculiare in Aces è la capacità di combinare le sonorità più scure del Symphonic europeo, con i motivetti catchy delle hit radiofoniche d'oltreoceano: “The Bless” e “Won't Look Back” ne sono l'emblema.
Non si può dire lo stesso di “House of Ades”, “The Chance” e “Melted Past”, dai toni essenzialmente più malinconici, e orientate verso colori e ritmiche heavy: si ravvisa, specialmente nelle prime due, un ascendente spiccatamente europeo, quasi a richiamare i Within Temptation, nelle strofe e nei bridge.
On Springs and Hopes” e “In Time”, invece, rappresentano l'alternativa in questa produzione: un'acustica pianoforte e voce la prima, una ballad gotica orchestrata la seconda, riassumono l'eleganza femmile di un gruppo in cui le donne sono ben due.
Pietra miliare di questo Aces sono, però, le tracce “Sunwarmth” e “Here Comes War”: da un lato l'accattivante ballad elettrica dotata di uno strepitoso assolo conclusivo, dall'altra l'energia e il pathos di una composizione che mostra apertamente l'influenza classica della band.

Vario, articolato, ma sostanzialmente orecchiabile: Aces è un album che non ha bisogno di chiarimenti.
Parla da sé. E farà parlare di sé.

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