“Isolation comes from 'Insula' which means island

Here we go into grey”

Da ”Insula”

Moses Sumney é un trentenne afroamericano al suo secondo album. E se con il suo primo lavoro, “Aromanticism” ci aveva fatto intravedere delle potenzialità immense, in questo “ Græ” tutto il potenziale diventa realtà e ha bisogno di diciannove tracce per esplodere in tutta la sua veemenza.

Non so se uscirà qualcosa di meglio nei prossimi mesi, ma a parere di chi scrive questo é il miglior disco del 2020 (ecco l’ho detto, sorry Fiona Apple). Oltre alla voce che, a seconda dei casi, arriva fino in cielo o si incupisce per raggiungere le viscere della terra, in questo album c’é un una varietà compositiva che passa dai riferimenti alla musica black, a Björk e Thom Yorke, in un mix del tutto personale. Ottoni, elettronica, chitarre acustiche e archi: Moses sembra saper scegliere il vestito migliore per ogni suo pezzo e non ha paura di osare.

Il primo dei due album é tendenzialmente alternative pop e inizia alla grande: “Cut me” é probabilmente uno dei pezzi migliori dell’intera produzione di Sumney – teatrale nelle intenzioni, profondamente attuale nelle idee e nelle tematiche (“Guess I'm a true immigrant son//No vacancies, no vacations”). “Virile” é un pezzo che potremmo definire R’n’B e che combina un ritmo elettronico ossessivo perfettamente in linea con il tema affrontato: le prigioni mentali in cui spesso ci rinchiudiamo (Desperate for passing grades// The virility fades//You've got the wrong guy// You wanna slip right in////Amp up the masculine//You've got the wrong idea, son”).

Ci sono degli intermezzi claustrofobici che fungono da propulsori per la profondità malata e ossessiva con cui Moses guarda al baratro, alle sue relazioni, al razzismo diffuso e alla difficoltà del sopravvivere in un mondo che ti vuole relegare in una sola categoria ("I insist on my right to be multiple" da "Also Also Also and and and"). L’atmosfera é quasi sempre cupa, asfissiante e la voce di Moses, che si libera a raggiungere ottave stupefacenti, é l’unico elemento che riesce a librarsi nell’aria e costituise una buona contrapposizione alla drammaticità delle atmosfere.


Altri brani che devono assolutamente essere menzionati (nel primo disco) sono: la compulsiva „Conveyor“ (che sembra uscita da “Amnesiac” dei Radiohead), il jazz oscuro di “Gagarin”, la tristezza tribale di quell gioiellino che é “Neither or not” (“You cannot be neither, nor / You have to pick a door / Only the lonely are lukewarm”) e la conclusiva ballata romantica “Polly” (con un video fortissimo a seguito) che ci lascia a prendere ombra sotto un albero, in una calda e soleggiata giornata d’estate in North Carolina.

Parte la seconda sezione del lavoro e ci addentriamo in un luogo più oscuro rispetto a ciò l’ha preceduto. La prima traccia, “Two Dogs” sembra portarci all’interno di un trasfigurato sogno/incubo (“I found two dogs // on the hot concrete of the back porch // one in amniotic vomit // the other in fetal contort”). Cosí si susseguono le nove canzoni (tutte a livelli altissimi con picchi in “Me in 20 Years” e“Lucky me”) in un’atmosfera assolutamente dark, onirica e scarna. E si torna al punto in cui si era partiti: alla difficoltà di farsi accettare per quello che siamo davvero e all’isolamento in cui troppo spesso ci chiudiamo per paura di essere ripudiati.

Insomma, questo disco ha bisogno di numerosi ascolti per essere apprezzato, ma investire del tempo in quest'opera complessa di uno dei giovani più promettenti dell’attuale panorama musicale, ci ripaga di tutto. E se vi capita, acquistate il vinile: una vera opera nell’opera – una roba fatta così bene non la vedevo da tempo.

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