Si sono fatti conoscere con uno stile proprio, con un mix proprio, con un suono proprio, sono entrati in punta di piedi nel panorama musicale e hanno subito acquisito un’identità propria, sono subito diventati “I MUSE”; poi però si sono sempre più fatti criticare o addirittura odiare per presunte promesse non mantenute, a volte per la troppa elettronica, a volte perché troppo abbindolati da alcune mode del momento, a volte per perso quel tocco caratteristico e scopiazzato a destra e manca.

Cosa ci si poteva aspettare dopo il ciclone elettropop di “Simulation Theory”? La risposta non è esattamente “qualsiasi cosa”, perché in oltre vent’anni di carriera la band non si è spinta tantissimo oltre quelle che sono le tre anime fondamentali del proprio marchio; i Muse ruotano fondamentalmente attorno a tre incarnazioni di base, una decisamente rock, una elettronica ed una timidamente classica o sinfonica, hanno accolto anche altre influenze ma tutto porta a quelle tre fondamenta.

E quindi che diavolo di disco è “Will of the People”? Beh, possiamo dire un compendio di tutto ciò che sono i Muse. Sembra grossomodo un resoconto ben organizzato, come se la band si fermasse un momento per riflettere su quanto fatto finora; la breve durata (solo 37 minuti) sembra proprio voler smascherare questo velato intento riassuntivo. Con ciascuna delle 10 tracce si può benissimo fare un gioco, si può provare ad immaginare da quale precedente album del gruppo questo o quel brano potrebbe essere uscito.

Possiamo partire dicendo che chi pensava di liberarsi dell’elettronica ottantiana del disco precedente rimarrà deluso, anzi, quando ci si butta su certe sonorità lo si fa in maniera ancora più clamorosa che nel precedente, con riff che veramente sembrano presi da una hit parade di quell’epoca. “You Make Me Feel Like It’s Halloween” sembra realizzata oggi da un qualsiasi gruppo synth-pop con la produzione di oggi ma con la testa ancora piantata negli anni ’80, i colpi di sintetizzatore suonano anni ’80 in maniera spudoratissima, soltanto vi si intrufolano degli organi volutamente da film dell’orrore a dare quell’atmosfera oscura senza privare assolutamente il brano del suo piglio commerciale; siamo vagamente a metà strada fra i Depeche Mode e i Ghost. Anche i riff frizzanti di “Euphoria” e il suo ritmo vivace ed allegro sembrano un prodotto tardivo e mai pubblicato in precedenza degli anni ’80, però i Muse ci mettono del loro, portando anche synth “propri” e quando poi interviene la chitarra lo fa nello stile Muse. Il ciclone ottantiano non risparmia nemmeno la più romantica “Verona”, brano che si prefigge di essere sognante e visionario, che sembra fatto apposta per scaldare i cuori dal vivo, che sembra ideale per essere eseguito in una cornice di luci colorate e brillanti; è caratterizzato da un arrangiamento elettronico possente e carico. Diverso è il discorso da fare per “Compliance”, lì gli arrangiamenti sono un po’ più futuristici e una timida vena funk emerge quel tanto che basta, il brano sembra uscito forse più da “The 2nd Law”.

Il lato più rock nudo e crudo emerge nella traccia d’apertura che dà il titolo all’album, un hard rock potente e moderno ma che suona pienamente Muse, poteva tranquillamente figurare in “Drones”, sembra una gemella più moderna e graffiante di “Psycho”, il ritmo galoppante è quello. In ogni caso il brano che più suona nel loro stile è indubbiamente “Kill or Be Killed”, dove si configura il perfetto connubio fra chitarra energica e synth loop alla vecchia maniera, con in più quel lieve senso di atmosfera apocalittica, potrebbe tranquillamente trovarsi in “Absolution”.

Matthew Bellamy poi non dimentica di amare le composizioni al pianoforte ed ecco che ne mette due: “Liberation”, troppo pretenziosa e corale in stile Queen ma priva del mordente necessario, per me il punto più basso del disco; “Ghosts (How Can I Move On)” invece è più classicheggiante ma orecchiabilissima, le mani si muovono sul piano in modo scorrevole con passaggi precisi e regolari, mai ostici.

Ci sono poi anche le sorprese, quelle meno attese. In particolare “Won’t Stand Down”, un brano dai due volti dove per la prima volta si va esplicitamente su territori metal; le strofe hanno un incedere lento con suoni moderni ma anche molto pop, poi Bellamy spara riff affilatissimi ma lo fa senza scimmiottare praticamente nessun gruppo metal, è metal in stile Muse, con il suono di chitarra loro caratteristico, suona addirittura come se il metal lo stessero inventando loro ed è un fatto notevole; quando fu presentato come singolo era anche lecito pensare di prepararsi ad una svolta più heavy del trio, invece rimane un esperimento isolato. L’altra sorpresa, un po’ meno clamorosa, è rappresentata dal brano conclusivo “We Are Fucking Fucked”, una specie di post-punk guidato da un basso preciso e fluido, con tanto di cavalcata rock’n’roll finale che comunque non può in alcun modo competere con quella di “Knights of Cydonia”.

In sostanza quindi non è cambiata la formula, non è passata la voglia di intrufolarsi su territori piuttosto commerciali ma l’impronta Muse stavolta è presente. In diversi album qualcuno poteva rimproverare al gruppo di essersi snaturato e di non essere più tanto Muse, qua invece perlomeno quando si va sui territori più rock il sound Muse c’è, Bellamy si comporta come Bellamy e non fa il verso a Brian May, The Edge o chissà chi (come succedeva ad esempio in “The 2nd Law”).

Quello che forse si può rimproverare è il mancato coraggio di andare troppo oltre quelle tre anime descritte sopra. Sento che probabilmente ne hanno altre, forse una un po’ funk, forse una un po’ metal, forse ce ne sarebbe anche una acustica ma si presentano tutte un po’ col freno a mano tirato, di certo non è quel coraggio mostrato ad esempio in “Black Holes and Revelations”, probabilmente il disco più spregiudicato del trio.

Rimane in ogni caso un ottimo lavoro che accontenta tranquillamente vari tipi di ascoltatore.

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