Ci sono alcuni dischi e alcuni gruppi per i quali l'applicazione di un metro oggettivo d'analisi risulta vano e riduttivo. La musica fortunatamente è ancora latrice di emozioni innanzitutto, e in alcuni casi utilizzare termini tecnico-musicali per descriverla non rende il portato emotivo in essa racchiuso. In un epoca caratterizzata da ascolti superficiali, rovescio della medaglia del file sharing selvaggio praticato un po' da tutti, ritrovarsi a sentire ininterrottamente un album per settimane è quasi un miracolo. Il miracolo è ancor maggiore se l'album in questione è un doppio live di due ore.

Troppi sono i momenti belli e brutti condivisi con i My Morning Jacket per esprimere un giudizio super partes sulla loro musica. Si scatena un meccanismo da supporter calcistico, una fideizzazione da crociato musicale, che quasi non ammette critiche né repliche.  A voler essere onesti (credetemi mi rimane difficile come per un cattolico inzuppare l'ostia nel caffelatte) i My Morning Jacket sono fondamentalmente un band hard rock con momenti country e gospel, a tratti pure un po' kitsch per i vocalizzi in falsetto del cantante (e demiurgo della band) Jim James. Ma io tutto ciò non lo credo, ovviamente. Nel mio piccolo mondo Jim James è il Messia e la sua "Flying V" il bastone papale, simbolo di potere terreno e superno. Un dio fallace come piace a me, talmente pieno di sé da permettersi di steccare ripetutamente sulla mia canzone preferita "One Big Holiday", senza fare una piega, perseverando anzi. E perseverare è fortunatamente diabolico.

La band da par suo palesa quello che già trapelava dai dischi in studio, ossia un affiatamento e una potenza fisica ed emotiva dal vivo spettacolare, sia nei momenti riflessivi ("I Will Sing You Songs", il lirismo di "Gideon", la dolcezza estatica di "Golden") che in quelli più muscolari ("What A Wonderful Man", l'accelerazione tribale di "Run Thru", l'Hammond caldo di "Anytime"). Una band con un ventaglio di soluzioni terrificante, in grado di passare dal reggae sostenuto con tanto di coda psichedelica di "Off The Record", a una ballata struggente ("I Think I'm Going To Hell") fino ai gorgheggi fra Neil Young e Antony di "Dondante".

Un disco, in definitiva, che fotografa il gruppo al suo massimo zenith artistico, scomodando paragoni ingombranti con mostri sacri quali i Led Zeppelin, con cui condividono lo stesso approccio rock a 360°.
Personalmente, disco dell'anno.

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