I Myrath, una delle band che ho ascoltato di più lo scorso anno. Non so perché mi hanno preso così tanto, sarà per il loro sound capace di infondere un’energia calda e positiva più di molte altre band, ma da esteta della musica che si innamora soprattutto dei particolari è chiaro che il mix proposto ha fatto la differenza; la band tunisina infatti è riuscita ad imporsi fra il pubblico del progressive metal per il loro inusuale mix che assembla sonorità prog-metal e power metal di derivazione Symphony X con sonorità tipiche della terra d’origine, del folk nordafricano e mediorientale, sonorità che un individuo qualsiasi non s’immaginerebbe mai unite insieme, il loro non è certo un qualcosa che si sente tutti i giorni; d’altronde le sonorità arabe sono sonorità che piuttosto difficilmente attecchiscono nel pubblico occidentale, a loro va riconosciuto anche il merito di farle apprezzare altrove, seppur in una veste più metallica.

Lo scorso anno ha visto uscire il loro quinto album, “Shehili” ma prima di raccontarlo serve fare una breve cronistoria della ancor breve carriera dei Myrath. I tunisini avevano esordito nel 2007 con “Hope”, un album ancora poco originale registrato senza un cantante di ruolo, dove a cantare era il tastierista Elyes Bouchoucha, un album prog-power metal incredibile, scritto ed arrangiato nel migliore dei modi e con un perfetto equilibrio fra gli elementi ma ancora una piuttosto sterile copia dei Symphony X, con chitarre e voce che scimmiottavano palesemente lo stile di Romeo e Allen, poche ed impercettibili le influenze arabeggianti, se qualcuno lo descrivesse come <<il miglior album dei Symphony X post “The Odyssey”>> non ci sarebbe nulla da dire. Nel 2010 esce “Desert Call”, con finalmente il cantante di ruolo Zaher Zorgati, probabilmente l’album perfetto dove il prog-power metal stile Symphony X e le sonorità arabeggianti (ora evidenti) si intersecano alla perfezione. Subito nel 2011 arriva “Tales of the Sands”, decisamente più immediato, meno progressive e forse anche un po’ meno power, con arrangiamenti d’archi tradizionali sempre più protagonisti, ma il mix è ancora frizzante ed originale, un metal arabeggiante ancora una volta in grado di non lasciare indifferenti. Poi uno stop più lungo, un cambio di batterista e nel 2016 arriva “Legacy”, dove stavolta il tentativo di alleggerimento è netto, sempre più arabeggiante ed orchestrale ma decisamente poco metal, con le chitarre quasi a far da contorno, un disco molto brillante nelle melodie ma in cui viene meno quel particolare mix che si era creato.

E poi “Shehili”. Chi si aspetta un ritorno ad una certa potenza ne rimane sicuramente deluso, il recupero di certo sound duro è solo parziale, perlopiù concentrato nella prima metà e non ai livelli di un tempo, lo stile della maggior parte della tracce rimane molto soft, in linea con il precedente “Legacy”, come se la band volesse adagiarvisi facendo tesoro della sua fin troppo facile presa. Per la verità l’album parte con degli episodi più o meno heavy, “Born to Survive” e “You’ve Lost Yourself” hanno un bel tiro, si avvicinano perlomeno al sound di “Tales of the Sands”, la prima sperimenta sonorità quasi tribali che mostrano comunque una band volenterosa di trovare nuove soluzioni, come se dalle sabbie la band si spostasse nella giungla mantenendo comunque il cuore nel deserto; un interessante mix fra metal e percussioni tribali lo troviamo anche nelle energiche e trascinanti “Wicked Dice” e in “Monster in My Closet” sebbene non con la stessa potenza, la seconda è più tagliente, la prima soprattutto è molto leggera. Un’aggressività moderata anche quella di “Darkness Arise”, che mischia metal e arpeggi di folk mediterraneo, impreziosita anche da un insolito assolo al suono d’organo.

Quindi una bella manciata di brani leggermente tirati li abbiamo ma per il resto l’album segue la linea di “Legacy”, ponendo in primo piano atmosfere tipiche nordafricane e arrangiamenti orchestrali dal caratteristico sound e relegando le chitarre distorte al ruolo di rifinitura, con buona pace di metallari e di chiunque si era innamorato di quel particolare mix. Già quando parte la quarta traccia “Dance” si capisce dove la band vuole andare a parare, le sonorità sono da danza del ventre, non a caso i Myrath si servono di danzatrici sul palco per accompagnare i brani durante i live, quei pochi riff taglienti non devono trarre in inganno, servono solo a dare un maggior impatto sonoro, non certo a creare un mix come si vorrebbe far credere, è semplicemente una copia di “Believer” più rafforzata. Il brano più ingannevole però è senz’altro la conclusiva title-track, che illude l’ascoltatore più metallaro con qualche riff pesante all’inizio ma lo lascia con l’amaro in bocca quando si accorge che a dominare sono gli arrangiamenti folk più che mai tradizionali e mai così profondi e sanguigni, al massimo fa un pochino contento quello delle sonorità più dark con qualche coretto gothic che sopraggiunge più avanti ma senza mai soddisfarlo completamente. Le restanti tracce confermano un orientamento già piuttosto chiaro. “No Holding Back” è un brano energico dalla melodia sgargiante, è praticamente una sorta di AOR arabico molto orchestrale, in sostanza riprende più che in qualsiasi altra traccia la formula del precedente album. In “Mersal” il cantato è il più caratteristico e arabeggiante che abbiano mai proposto, una voce vibrante e pungente accompagnata da robusti effetti synth e ancora una volta alternata con sfarzosi arrangiamenti orchestrali. “Stardust” è il brano che spezza il ritmo e si basa su un piano vivace ma notturno e riflessivo. Con lo scopo di ribadire la matrice sempre più tradizionale dell’album ecco spuntare una cover di “Lili Twil” del gruppo marocchino degli anni ‘70 Les Frères Mégri, brano che i Myrath si limitano a rendere un po’ più spigoloso e che alla fine non riescono a ridisegnare come vorrebbero.

Veniamo ora alle varie osservazioni che si possono fare in merito. L’album è senz’altro dignitoso e ha la sua bella dose di energia positiva, una carica che il gruppo continua a saper trasmettere molto bene. Questo potrebbe bastare a chi non ha particolari pretese ma c’è un qualcosa che ai Myrath si può rimproverare, ovvero di aver alleggerito il proprio sound troppo radicalmente e troppo presto, la band ha parzialmente distrutto il prefetto mix che aveva creato per cercare di proporre fin dal giorno dopo qualcosa di molto leggero e fruibile. Quando si riascolta “Desert Call” e si pensa a cosa sono diventati poco dopo ci si mangia le mani e si pensa <<cazzo, com’è possibile che questa perfetta alchimia sia durata così poco, perché questa riuscitissima formula non è stata portata avanti ancora per un bel po’ (con le opportune variazioni)?>>… C’era ancora “Tales of the Sands” che godeva di un bel mix ed era ancora tutto sommato il disco giusto, con l’alchimia perfetta, ma effettivamente già lì, vuoi per l’approccio meno progressive e per una potenza meno pronunciata, si leggeva il futuro. In questi ultimi due album invece hanno ridotto la componente metal all’osso facendo venir meno proprio quel mix che li rendeva interessanti, quello degli ultimi Myrath sembra davvero una sorta di neo-melodico arabo con giusto qualche chitarrina distorta in sottofondo per dare un po’ di carica, non certo un oriental metal come loro vorrebbero far credere, loro ne sono convinti ma noi ascoltatori anche non troppo attenti li abbiamo smascherati subito. Musica comunque bella ma comunque musica da danza del ventre, da falò in spiaggia, perfino da kebabbaro; sono convinto che se mettessimo la maggior parte dei brani di “Legacy” o di “Shehili” a tutto volume nel chiosco di un kebabbaro il cliente qualsiasi direbbe che si tratta semplicemente di “musica dei loro paesi”, nemmeno si accorgerebbe che a suonarla è un gruppo metal, stessa cosa se gli stessi brani venissero usati in un saggio di fine anno di danza del ventre; un tizio su Truemetal una volta scrisse che non si sorprenderebbe se d’improvviso un giorno sbucasse Shakira con uno dei suoi balletti pelvici, mentre qualcuno definiva la band come il lato leggero dell’oriental metal e affermava che gli Orphaned Land sono di un altro pianeta (devo ancora scoprire ed approfondire questa band). Ma la band non sembra affatto convinta di questo, anzi, è davvero convinta di aver raggiunto il perfetto mix fra metal e folk nordafricano, nei video su Instagram salutano il pubblico dicendo “stay metal” anche se di metal oggi come oggi ne hanno ben poco, e la cosa è preoccupante, perché se questo è il loro concetto di metal allora mi sa che dovremmo per sempre metterci l’anima in pace e convincerci che non avremo mai più un disco come “Desert Call” (ci sarà forse qualche speranza almeno per un disco come “Tales of the Sands”).

Personalmente io sono dell’idea che quando hai intrapreso un discorso interessante devi portarlo avanti e quello di “Desert Call” era da portare avanti per una bella manciata di album; la formula di questi ultimi due lavori mi piace, mi piace anche sentire le band in una loro versione più leggera, ma penso che andava fatto semmai più avanti ed in ogni caso avrei preferito una svolta diversa e più originale, ad esempio verso il progressive rock, magari un mix di prog classico e sonorità arabe, o anche un hard rock arabeggiante, sarebbe stata una svolta sicuramente più sensata, interessante e credibile. In ogni caso mi piacerebbe che con il prossimo album tornassero a qualcosa di più pesante.

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