Nel celebrare il ventennale dell'uscita ufficiale di "Into The Macabre" (primo full lenght dei genovesi Necrodeath), la maggiore difficoltà per chi scrive finisce per essere quella di riuscire a conciliare una doverosa obbiettività di giudizio, con quell'approccio entusiastico con cui spesso ci si accosta ad alcune produzioni "storiche", soprattutto se di origine tricolore.

Ad onor del vero, sarebbe sciocco ed inutile tentare non solo di sminuire la caratura e la seminalità del debutto di Claudio e soci, ma anche, e soprattutto, negare che i Necrodeath siano stati più di una "semplice" cult band per il nostro paese. Nella seconda metà degli anni '80, infatti, i quattro genovesi sono stati per un breve, ma intenso periodo un vero e proprio motivo di vanto, una medaglia da indossare con fierezza a livello mondiale, la testimonianza più concreta e vitale di una scena estrema italiana sicuramente secondaria se paragonata ai due grandi bacini tedesco e americano (cui andrebbe aggiunto, per correttezza storica, il nord Europa), ma comunque valida se si tiene conto della qualità dei gruppi che ha saputo sfornare: Death SS, Skizo e Bulldozer su tutti.

Per chi non conoscesse la produzione della band nella sua compagine originaria, basti sapere che il sound dei Necrodeath può ben definirsi come una summa degli stilemi che caratterizzavano la scena estrema mondiale dell'epoca. Gli Slayer, innanzitutto: influenza inevitabile e doverosa, da cui però la band non si limita a raccogliere quanto seminato da Araya a e soci col capolavoro "Reign In Blood", ma, procedendo a ritroso, finisce per attingere soprattutto le sonorità e le atmosfere più oscure del sulfureo "Hell Awaits". In secondo luogo, il thrash tedesco in generale e della triade in particolare, con specifico riguardo all'aspetto vocale. E, ancora, i Possessed (dal cui debutto viene ripresa l'attitudine proto death), la glaciale creatura di Tom Warrior (all'epoca impegnato a generare quel capolavoro osceno che fu "Into The Pandemonium") e, soprattutto, la furia malvagia e priva di compromessi dei primi Bathory (che, proprio nello stesso periodo, davano alle stampe lo storico "Under The Sign Of The Black Mark").

Proprio dalla commistione di tali molteplici elementi, emerge una formula musicale che, sebbene ben lungi dal potersi definire realmente innovativa, ha finito per costituire non solo un ottimo prodotto "figlio dei tempi", ma anche e soprattutto una fonte di grande ispirazione mai celata e, anzi, celebrata per la scena black a venire. Ecco quindi che accanto a brani più canonici e lineari (su tutte le splendide "Southenerom" e "Necrosadist"), si accompagnano episodi nei quali è quasi palpabile la tentazione della band di affrontare territori se possibile ancora più violenti, veloci ed oscuri rispetto a quanto fino ad allora fatto sentire dai "maestri" (sentasi, a tal proposito, la conclusiva "The Undead"). Nasce così un ibrido malvagio e primordiale, fondato sulla pressoché totale assenza di concessioni melodiche, su un drumming selvaggio e ostinatamente aggressivo e su brevi, sporadiche, ma intense "variazioni di programma" (si pensi al growl recitato in "Mater Tenebrarum" - sicuramente tra le canzoni migliori del disco - o agli arpeggi acustici con cui viene alternata la furia blackeggiante di "Internal Decay"). Una sorta di latente voglia di osare che, sebbene non dotata della forza necessaria per indicare pienamente un nuovo corso, di certo non permette di etichettare questo disco come un tipico prodotto della scena thrash anni '80.

Il risultato finale, se per certi versi può davvero dirsi entusiasmante (soprattutto qualora si tenga in debito conto dell'ambiente e dei mezzi con cui è stato dato alla luce), non può, a mio avviso, fregiarsi del titolo di capolavoro. Se, tutto sommato, si soprassiede volentieri ad alcune incertezze e asperità del songwriting (leggi: "indicibile grezzume" soprattutto in fase assolistica più scarsa originalità in sede di arrangiamenti), la vera pecca del disco risiede nella produzione. Intendiamoci, "Into The Macabre" non è né il primo né l'ultimo dei dischi thrash/black/death anni '80 a "godere" di una produzione oscena e approssimativa. Ben più che in altri casi, però, il risultato finale finisce per esserne davvero compromesso: oltre all'immancabile ronzio di sottofondo, alla caciara infernale che si scatena ogniqualvolta il buon Peso provi solo a sfiorare i piatti e ai "soliti" problemi di bilanciamento, sono soprattutto le chitarre (zanzarose e ovattate) a patire una scelta di suoni davvero discutibile, peraltro rimasta inalterata (e ciò è abbastanza irritante?) anche nella riedizione in cd del 1998 a cura della nostrana Scarlet.

Un ottimo prodotto e un eccellente debutto, quindi, certamente non privo di difetti, ma sicuramente meritevole di aver dato lustro internazionale al nostro paese e, soprattutto, di aver contribuito a spostare un po' più in là i limiti dell'estremo musicale umano.

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