Il metal non ha mai avuto vita facile al di fuori dei propri confini, sarà per l’eccesso di folklore di alcuni suoi musicisti o ascoltatori, ma per lungo tempo questo genere è stato snobbato da gran parte della critica e degli appassionati. Certo gente come i Type O Negative, gli Ulver o i Tool ha contribuito a sdoganare il genere persino in circoli snob come quello indie/hipster, ma esiste perlomeno una roccaforte dai piú ancora ritenuta inviolabile, derisa ed evitata anche da buona parte dei metallari stessi, ovvero il black metal

Questo puó essere in parte dovuto alla diffusa misantropia, al satanismo imperante, agli omicidi/suicidi, alle chiese bruciate e al look da panda zombie; ma anche alla proposta musicale stessa, di solito decisamente priva di compromessi, grezza ed ossessiva, non saprei. 
Resta il fatto che questo bistrattato (sotto)genere ha in verità molto altro da offrire e rimane oggi anzi una delle poche realtà interessanti del metal, che tenta ancora di percorrere strade nuove e di aprirsi (cosa paradossale per quello che era nato come il genere chiuso e tVue per anatomasia) a contaminazioni esterne. Probabilmente i primi che saltano alla mente in questo senso sono i già citati Ulver, o gli Enslaved; pure i francesi Alcest erano riusciti ad assurgere negli anni 2000 a piccolo fenomeno mediatico nel mondo della musica alternativa, sposando atmosfere shoegazing e bucolico-oniriche con il verbo black (e con conseguente nascita, come da tradizione, di una miriade di gruppi clone, perlopiú relativamente inutili).
Ebbene nel 2006, un anno prima che i transalpini uscissero col loro debutto, nella lontana Romania, un gruppo black attivo già dalla metá degli anni ’90, i Negura Bunget, pubblicava "Om".
Questo disco, solitamente riconosciuto come apice della band, anticipa per molti versi il discorso intrapreso dai francesi. Anche qui abbiamo una musica che riprende alcuni aspetti formali del black (vedi i riff ossessivi o il cantato), ma li inserisce in un contesto molto piú etereo; il risultato complessivo è meno solare ed easy listening di quello degli Alcest, ma il mood rimane placido e spirituale, durante l’ascolto ci si sente quasi catapultati nelle placide, ma desolate lande innevate (o, a scelta, autunnali) di un’ipotetica foresta transilvana. L’atmosfera introversa e meditativa viene creata tramite l’accorto uso di tastiera e strumenti a fiato vari (corni, flauti, etc.), che sommati alla strumentazione canonica creano quello che si potrebbe approssimativamente definire come una sorta di black-folk-ambient.

Sebbene in Italia il disco sia passato piuttosto inosservato, in Germania e altrove questa band è diventata un piccolo culto, in grado di aggiudicarsi pure riconoscimenti dalla stampa specializzata. Ebbene spero che tramite questa recensione anche qualche debaseriota possa scoprire ed imparare ad apprezzare questo ottimo disco.

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