'Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!' (Riccardo III, William Shakespeare)

Qualche volta anche i giganti crollano e quando questo succede, fanno molto rumore. Poiché tuttavia nel caso di Neil Young il 'rumore' è sempre stata una caratteristica portante della sua carriera di musicista e qualche cosa cui, essendo un perfezionista, egli abbia dedicato tutta la sua esistenza, in questo caso specifico possiamo dire che il crollo del 'gigante' abbia fatto veramente poco rumore. Troppo poco.

Sinceramente me lo aspettavo. Lo sapevo che questa volta lo zio Neil non avrebbe fatto centro, perché i segnali che derivavano dall'ascolto del primo disco con i Promise of the Real (il live 'Earth' uscito nei giugno 2016), la formazione che lo accompagna dal vivo da qualche anno e capitanata da uno dei figli di Willie Nelson, Lukas, erano assolutamente negativi.

Certo il confronto con la potenza del suono del 'cavallo' (i Crazy Horses') sarebbe stato improponibile per chiunque, ma quelle sensazioni negative e che dopo l'ascolto di 'The Visitor' (Reprise Records) divengono certezze, ci dicono chiaramente che qualche cosa in questa collaborazione non funziona.

'The Visitor' è un disco brutto, arrangiato male e suonato ancora peggio. Sono in particolare i pezzi più rock a essere assolutamente deludenti. A partire dalla prima traccia 'Already Great' con un ritornello quasi sinfonico e un uso dei cori sicuramente discutibile; 'Fly By Night'; l'improbabile groove funk di 'Stand Tall' interrotto da trionfalismi Queen; gli otto minuti della ballata country-western 'Carnival', metà Morricone e metà Bolero. In tutti i casi inoltre il suono delle chitarre è quasi strozzato e in particolare quello delle parti soliste. Questo succede anche in 'Diggin' A Hole', un blues nello stile di Muddy Waters riletto da Nick Cave e 'When Bad Got Good', un piccolo scorcio spoken-word nello stile di Tom Waits.

Va un po' meglio con i pezzi acustici. La ballata 'Almost Always' e 'Change Of Heart' (gli accordi sono gli stessi di 'Xmas In February' di Lou Reed) dove si sente una certa somiglianza proprio con lo stile di Willie Nelson, i dieci minuti di 'Forever'. Ma è troppo poco e gli arrangiamenti orchestrali quasi natalizi di 'Children Of Destiny' sono sicuramente la cosa peggiore Neil Young abbia mai fatto nella sua lunghissima carriera.

Non fosse per la pubblicazione di quel disco brillante che è stato 'Peace Trail', un lavoro concepito e scritto su due piedi da Neil e registrato assieme a Jim Keltner e Paul Bushnell a sostegno della nazione indiana e in particolare in occasione delle proteste di Standing Rock contro il Dakota Access (una protesta che ha sicuramente segnato i primi mesi della presidenza Trump), potremmo parlare di un artista in crisi. Ma per fortuna, nonostante questo 'crollo' le cose non stanno esattamente così.

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