Grande personaggio, Neneh Cherry.

Figlia d'arte, debuttò come artista dance con l'ottimo "Raw Like Sushi" del 1989 che ne sancì la statura rilevante nel riuscire a giostrare magistralmente le scorie elettroniche di un decennio fervido in ambito ritmico. Ma fu col successivo "Homebrew" che Neneh sfornò il suo capolavoro, dedicato alla figlia appena nata. Le influenze dance del debutto non vennero accantonate, bensì mischiate con influenze rock, r'n'b, e hip hop, con sensibilità soul e un gusto pop calibratissimo. Un vero e proprio punto di arrivo per la black music.

E poi quella voce riconoscibile fra mille, rauca e intensa come poche nel cambiare registro con facilità disarmante, e capace di evitare le trappole della banalità grazie anche a testi che alternano sapientemente temi sociali ( soprattutto sulla condizione femminile) e personali.
Il brano più simile al primo album è certamente "Buddy X", ma già su "Move with me" è evidente una magnifica capacità di amalgamare intensi movimenti elettronici, laddove la strepitosa "I aint' gone under yet" introduce delicate sfumature jazz, cui fa da contraltare la ballabilissima "Money love", grazie a un groove chitarristico davvero godibile. Un eclettismo davvero stupefacente, come dimostrato dal miglior brano del lotto, quella "Trout" in cui la voce di Michael Stipe regala momenti di struggente poeticità a un brano che mescola abilmente ritmiche hip-hop, essenzialità pop, energia rock e persino futuristici frammenti di campionatore.

Un album davvero fondamentale, perché mostrò che gli incroci tra musica nera e rock già allora in voga non potevano prescindere dalla personalità, dalla poesia e da una consapevolezza sociale non indifferente.

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