Terza ed ultima giornata di questo Traffic Festival, che si conferma uno degli appuntamenti più interessanti dell'estate torinese. Tanti i motivi per me per seguirlo anche nei giorni passati: dall'ormone impazzito che mi guida verso una qualsiasi delle CocoRosie previo via libera da parte del socio josi_, talent scout delle due, all'amata Carmen Consoli rilucidata di etnico, che brilla solo quando si lancia in versioni franzferdinandesche dei suoi Fiori D'Arancio o rende un gioiello la tensione di Geisha anche in acustico, fino ai Bright Eyes di un Conor Oberst sempre più novello Robert Smith, se possibile ancora più egocentrico ed emotivo dell'originale.

Caratteristica principale di oggi è la prevalenza della linea editoriale sui nomi coinvolti, la giornata è infatti dedicata a Manchester in un gemellaggio fra città industriali del nord, come dirà più tardi Tony Wilson, il boss della Factory, storica etichetta discografica mancuniana, sul palco principale prima di introdurre i New Order.
La base di partenza è proprio la storia dell'etichetta e della Hacienda, altrettanto storica discoteca locale, come descritta in 24 Hour Party People, film di Michael Winterbottom che traccia l'evoluzione della scena musicale della città dal post-punk alla cultura dei rave, in programma come anteprima nazionale nel pomeriggio. D'altronde siamo al venticinquennale dalla morte di Ian Curtis, è di prossima realizzazione un altro film incentrato solo sulla sua vicenda personale e il revival anni '80 si conferma presente in tantissime produzioni musicali recenti, per cui il tema non potrebbe essere più attuale.

Prima dei New Order si esibiscono gli 808 State, storico nome della club culture locale, nei quali milita Graham Massey, già collaboratore di Bjork negli imprescindibili Debut e Post. Per chi come me si aspettava qualcosa di più simile ad un dj set, troviamo qui un live act in stile Prodigy, piuttosto suonato e con brani d'impatto, non ultimo quella Pacific State, inno di una Manchester trasferitasi alle Baleari, con lo stesso Massey a suonare il sax soprano.

Sul palco entra quindi lo stesso Tony Wilson, che presenta con enfasi i New Order come l'unica band che ha cambiato il proprio suono, non una, non due, ma ben tre volte, qui tradotto da una bella presenza femminile invasata come una Sabina Guzzanti sotto acido. Il discorso termina con un: Fuck U2, this is New Order! Poi finalmente terminano le cerimonie e si passa alla musica.
Entrano quindi i nostri ed è inutile nascondere quanto gli anni siano passati: Bernard Sumner è un cinquantenne in sovrappeso e la tinta color pece dei capelli di Stephen Morris è visibile ben oltre la batteria. Forse se la cava meglio Peter Hook in pose tamarre mentre brandisce il basso sulle ginocchia. Quasi assurdo trovarsi a notare queste cose per una band la cui immagine è sempre stata così poco visibile.

Il concerto si presenta come un greatest hits contenente tutte le diverse anime della band e riprende il percorso tracciato nel film. L'inizio è una doppietta fenomenale, Crystal e Regret sono la quintessenza del pop, singoli pressochè perfetti, distillato del miglior pop-dance-rock di matrice inglese. Ci si collega subito all'ultimo album con Krafty, mentre l'omonima Waiting For The Sirens' Call si impreziosisce in una rincorsa fra la melodia cantata dalla voce di Sumner e quella suonata dal marchio di fabbrica, il basso di Hook.
C'è spazio per ben quattro pezzi dei Joy Division, Transmission, Atmosphere, She's Lost Control e, cantata in coro da un pubblico che non mi aspettavo così coinvolto, Love Will Tear Us Apart: dance, dance, dance to the radio, il punk trasfigura nella dance.
Non ci sono più gli equivoci di Ceremony, qui la voce è Sumner, senza timore di essere altro dall'originale. Sembra assurdo veder il pubblico pogare e ballare indifferentemente su queste canzoni. A fianco a me barrylindon mi guarda come il papà che ha portato il bimbo alle giostre, neanch'io so più se ballare o saltare.
Seguono i grandi classici del loro repertorio: Temptation, Love Vigilantes, un'inattesa Everything's Gone Green. Filastrocche ipnotiche, suoni artificialmente privati di ogni espressione emotiva, algida sintesi di una tragedia fino al riemergere riappropriandosi di una propria voce: in queste canzoni c'è un'umanità devastante, lo sforzo di dissimulare i propri sentimenti, la fatica nel riprendere un discorso interrotto, il tono confidenziale ed interlocutorio di un monologo senza risposte.
L'anima dance è invece True Faith, all'inizio quasi irriconoscibile nel recupero della versione club con quelle tastiere così house da tardi anni '80, ma l'assolo con il basso e l'incompiutezza del finale mi riconciliano con questo inizio incerto. Bernard Sumner sarà un cinquantenne anche panciuto, ma ciò non gli impedisce di ballare saltellando come un ragazzino spensierato su Bizarre Love Triangle, ripresa nella versione bignami dell'ultimo greatest hits.

Nell'encore un'altra sorpresa, Your Silent Face da "Power Corruption & Lies", con Sumner che suona la diamonica, poi il gran finale - which is obviously - Blue Monday, ad oggi il dodici pollici più venduto di tutti i tempi, con quel rullante riconoscibilissimo che lo rende un pezzo dance senza tempo, qui introdotto da un sample della voce di Kylie Minogue in Can't Get You Out Of My Head che chiude il cerchio sull'appropriazione di suoni e atmosfere già suggerita dalle versioni bastardpop. Uscita finale, il pubblico li chiama ancora sul palco con un improbabile coro sulla linea melodica finale della canzone, ma le luci si alzano senza l'atteso ritorno. Termina così un concerto memorabile e mi rimane una sola immagine, i loro volti illuminati da una fascia orizzontale di luce bianca nell'oscurità.

Heart and Soul.

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