"Tutti noi cademmo a terra, e io udii una voce che mi disse in lingua ebraica: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Ti è duro ricalcitrare contro il pungolo" (ATTI 26:14).

Ho a che fare col Vangelo da quando ero ragazzino. Racconti, profezie, martiri. Ho scoperto la meraviglia di Nick Cave da non molto, un anno credo. Racconti, profezie, martiri. "Ricalcitrare contro il pungolo" è il terzo disco di tal Nicola Caverna (coi semi cattivi, una volta giunta a termine la festa di compleanno, dopo che i ragazzi vicini alla porta se ne sono andati), ma questo io, a cinque anni o giù di lì, non lo sapevo ancora.

Sapevo solo che per Saulo era duro ricalcitrare contro il pungolo, lo leggevo e lo sentivo dire durante i sermoni domenicali. A posteriori, dopo tre anni di medie, cinque (pardon... sei) di superiori e dopo due anni di parcheggio universitario, so che il fatidico "pungolo" ha un equivalente in lingua inglese che recita "pricks"... che, in gergo, sta ad indicare pertanto altresì una classe di persone con una serie di caratteristiche alquanto... insomma, gli "stronzi" o i "coglioni" o i "rottinculo" o... completate voi, la lingua italiana, a differenza di quella inglese, è ben ricca d'ingiurie fantasiose (in due anni di parcheggio universitario, qualcosa l'avrò pure appresa, o no? Anzi, se desiderate chiarimenti sul turpiloquio in lingua inglese...).

Ah, allora gioca coi testi sacri, il nostro Nick! La risposta è sì, e chiunque abbia un briciolo di cognizione di causa lo sa. Dal re dei re che nacque a Tupelo agli apostoli seppelliti sotto quindici piedi di pura bianca neve la lista è lunga, convivendo nella poetica caveiana i testi sacri con l'immaginario gotico del sud e costituendone entrambi le colonne portanti, tanto quanto il blues malato dei padri ed il romanticismo tetro di Poe.
Qui, il divertissement evangelico la fa da padrone nel canto Gospel (="Vangelo" in inglese... ve l'ho detto, in due anni...) "Jesus Met The Woman At Well". Rivisitazione, per l'appunto, di un vecchio spiritual tradizionale, qui intonato a quattro voci da Nick, Blixa Bargeld (geniale chitarrista reclutato anni prima dagli Einsturzende neubauten o come cazzo si scrive), dal polistrmentista Mick Harvey (vera colonna portante della banda) e da Barry Adamson (che di lì a poco lascerà i semi cattivi), mentre il bravo (e bello) Wydler si limita a suonarcela picchiettando su pochi tamburi per tenere il ritmo di questo breve sermone cantato.

Ah, dimenticavo quasi, niente in questo disco scaturisce dalla penna di Cave, cioè, sono cover, così le chiamano. Riletture di classici, preferisco io. Ovvero, il gioco in soldoni fu questo: nei primi due dischi le influenze erano più o meno velate. Blues, Cohen, letteratura gotica, Poe, Waits, Elvis, Gospel. Qui, giusto per recalcitrare un po' contro gli stronzi (che poi sarebbero i discografici che Cave tanto odiava), si butta giù la maschera, e le influenze sono lì, sotto gli occhi e dentro le orecchie di tutti. Che, poi, quasi paradossalmente, questo disco suoni quasi più caveiano e bedsidsiano di molti dischi di Cave e i Bad Seeds, beh, questo è un altro discorso, anzi no, è lo stesso discorso che da un'ora circa sto cercando di affrontare, ma mi rendo conto che vi sono immancabilmente venuto a noia, profonda letale noia, e quindi vengo al sugo.
Qui c'è Cave, siori e siore. Tutto. Ci sono le murder ballads (per chi pensasse che se le fosse tirate fuori dalla manica con l'omonimo disco del '96) "Long Black Veil", "Hey Joe" (si, proprio quella di Hendrix, quasi irriconoscibile nella veste bedsidsiana... in realtà, credetemi, è una figata pazzesca, qualcosa da provare almeno una volta nella vita, una goduria auditiva senza pari).

C'è il blues più lercio che già caratterizzò gli esordi, in "I'm Gonna Kill That Woman", classico di John Lee Hooker, qui ancora più lercio e sporco che in precedenza. C'è l'amore, lo stesso che segnerà come marchio a fuoco i dischi futuri, con le sue vampate nere di dolore. C'è il senso di morte frustato a sangue da una follia tossica e alcolica. C'è Dio. E, sì, c'è lo splendore suburbano di "The Singer", ovvero "The Folksinger" dell'amato e mai troppo rimpianto Jonnhy Cash, qui leggermente modificata nel testo. A detta di molti, la canzone più bella del combo.
Tutto suona dannatamente à la Bad Seeds, tutto porta il marchio indelebile delle chitarre pesanti e snaturate di Blixa, della maestria di Harvey, della ritmica ossessiva di Adamson e Wydler. Sì, sono i Bad Seeds e le loro cavalcate i veri protagonisti di questa storia, ancora prima dei reali (e regali) autori delle enormi canzoni qui contenute.

È la voce di Cave, la vera protagonista. Sciamanica nella sfuriata di "Black Betty" (sì, proprio lei, black betty bamb-a-lamb!), qui trasformata in un rito voodoo, con tanto di percussioni da documentario sugli aborigeni (sempre in Australia siamo, và...). Insolitamente acuta e vibrante nella dolce "Something's gotten hold of my heart". Rubata ai migliori crooner in "The Singer". Suadente e sudicia nell'immensa "Muddy Water" (forse la sua più bella interpretazione vocale di tutti i tempi), accompagnata da un Blixa che spugnetta sulle corde stoppate, pesante come un macigno, e dagli stupendi cori maschili, altro marchio di fabbrica dei Seeds. Insomma, quello che sto cercando di dirvi è che qui c'è Nick Cave. Tutto. E ci sono i Bad Seeds. Con le loro cavalcate, ok, le loro sfuriate, i loro orgasmi sonori, la loro follia lisergica. Ci sono i Bad Seeds, dicevo.

E c'è Nick Cave. 1986. Questo è un disco di Nick Cave and the Bad Seeds. Tutto.

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