Dopo l'abisso, l'attesa, l'epifania della speranza dona un nuovo inizio, una nuova pelle da indossare per ricominciare.

Negli anni '80 era l'eroina la linfa per l'infinita frustrazione dell'esistere, contemporaneamente assassina e salvatrice di chi vive nella catarsi continua; vibrava nell'assenza di armonia, nei battiti feroci e nelle dissonanze che i Bad Seeds mettevano in scena nel teatro del predicatore dell'apocalisse. Il tutto, non a caso, a Berlino.

Fino a "The Good Son" la rinascita in tutti i sensi possibili: l'arcinota conversione religiosa, (la spiritualità fortissima l'aveva invero caratterizzato fin dagli esordi) la storia con Viviane Carneiro, la nascita del figlio Henry. Cave si sposta a San Paolo. Offrire incondizionatamente dimora all'amore, (nella concezione più alta possibile) può significare la totale accettazione di quelle ferite che non conoscono pace e guarigione, coltellate dell'anima che bisogna lasciar sanguinare per non scomparire nel dolore. "Let Love In" è l'album di questo conflitto interiore, del voler restare ad ogni costo al timone quando la nave affonda e il vento gelido non consente respiro.

Do You Love Me? - ripete Cave nel brano d'apertura, mentre rivive l'angoscia - Like I Love You - d'un amore che era àncora esistenziale, e ora la ragione in "Nobody's Baby Now" cerca di ritrovare l'equilibrio rotto dalla disperazione, potendo solo ammettere sommessamente la perdita, il distacco da e di chi si ama; non saper trovare le risposte.  "search for an answer that refuses to be found, I don't know why, I don't know how, she's nobody's baby now"

Il blues infernale di "Loverman", è quello dell'amante consumato dalla passione, schiavo dal gioco preso tra vita e morte di chi concede la propria anima ad ogni prezzo, l'amore-suicida, diabolico e parimenti vulnerabile.

"Jangling Jack" che vive della rabbia comune all'artista australiano, "Red Right Hand" (impreziosito dal magistrale arrangiamento dei Bad Seeds) che anticipa per certi versi certe sonorità delle successive "Murder Ballads", costituiscono l'unico momento di respiro (relativamente parlando) del disco.

Fino alla titletrack aperta da un'elettrica meditabonda che s'intreccia con il piano di Cave, e la catarsi lirica che ne segue è il miglior ritratto-istantaneo possibile del turbamento interiore dell'amante, potentemente romantico, che s'inginocchia e chiede poi scusa (o meglio pietà) in "Thirsty Dog" per riaquistare poi un desolato contegno nella notturna e solenne "Ain't Gonna Rain Anymore".

L'arte del patetismo raggiunge il suo culmine nella disperata "Lay Me Low", il coro gospel dei Bad Seeds che accompagna il finale grido di dolore di Cave, che al limite di ogni capacità di sopportazione forse preferisce rimanere in terra, con gli occhi gonfi e i pugni stretti. Il disco, che accompagnò per mano Nick Cave nel circolo delle rockstar, altro non è che l'esorcismo (o il tentativo di) delle ombre del suo autore, che come un fegato si purifica attraverso la scrittura.

L'invevitabile conclusione riprende il tema d'apertura, e come nella tragedia greca l'ascoltatore che tanto ha patito insieme all'autore, ne esce metaforicamente scheggiato, ma internamente arricchito dalla sublimità della poetica visionaria, profondamente umana (e tragica, appunto) di un Re Inchiostro per l'ultima volta, forse, senza difese.

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