Il primogenito è morto. . che il cielo si spezzi, vomiti le sue lacrime e vesta a lutto questa terra rossa.

Il profeta è la voce che colma il silenzio tra la folgore e il tuono: è un serpente incappucciato, folle e sensuale, con la faccia di un vampiro logorato dalla sete. Butta la sigaretta, indica il cielo. . . e comincia a ringhiare: "Verrà una tempesta a Tupelo, furente come solo l'Apocalisse può essere. I fiumi si faranno strade, le strade si faranno fiumi, giungerà un messia che ci insegnerà a peccare, le genti lo chiameranno "Il Re" e la sua nascita sarà segnata dalla morte di chi lo ha preceduto".

Il diluvio finisce. Torna il sole a gettare luce su storie torbide di uomini colpevoli e anime sporche. Storie, uomini e anime che, forse, era meglio rimanessero nascosti.

C'è un uomo che ama alla follia una bambina ("Say Goodbye To The Little Girl Tree"). Gli sembra di impazzire mentre pensa a quel collo bianco, a quella pelle che si agita sotto il vestito. . . alle curve ancora incerte del suo corpo. . . e sa che uccidersi è l'unico modo per placare la sua lussuria. C'è un treno fatto di sofferenze che danza sui binari dei ricordi ("Train Long-Suffering"): lo senti sbuffare sotto lo sferragliare delle chitarre e il suo fischio è l'ululato del profeta incatenato alla motrice. C'è un corvo nero lasciato solo a regnare su di un campo di granoturco che arriva fino all'orizzonte ("Black Crow King") e celle di prigioni, condannati a morte ("Knockin' On Joe"), fuorilegge braccati che hanno perso ogni voglia di vivere ("Wanted Man"), denti rotti, contati davanti allo specchio del bagno di un qualche bar, e corde di chitarra che fanno sanguinare ("Blind Lemon Jefferson").

L'ossessione che permeava l'immenso "From Her To Eternity" ritorna. Tornano i sibili rabbiosi, i suoni stridenti, i conati e i latrati dell'animale ferito più nella mente che nel corpo: solo più vividi, ancora più reali.

"The First Born Is Dead" è un disco ricchissimo di spunti, profondamente intriso dell'ossessione di Cave per le immagini e i colori degli stati del Sud, per alcuni personaggi che ad essi si accompagnano e, soprattutto, per i loro suoni e per la loro musica: uno scenario desolante e allucinato, in parti uguali Sergio Leone e Ken Russell.

A stagliarsi su tutti è il blues storpio, apocalittico e "tribale" di "Tupelo": groviglio di rimandi, citazioni bibliche e non (l'omonimo brano di John Lee Hooker), di visioni e audaci commistioni di sacro e profano. Il messia non è altro che Elvis (di cui Tupelo è, appunto, la città natale e il cui fratello gemello morì subito dopo il parto), ma Cave, profeta esasperato e visionario, ne predice la venuta come di un secondo Cristo, che nascerà attaccandosi ai calcagni del fratello, scivolando nel mondo "con la gloria di un ospite indesiderato" (proprio come accadrà, qualche anno più tardi, ad Euchrid, il protagonista di "E l'asina vide l'angelo").

Da lì in poi è un caleidoscopio desolante di personaggi e uomini sprofondati nella miseria, tra un intrecciarsi continuo di voci e cori gospel, sguscianti slide guitar e fili sottili di armonica. I tempi si dilatano, tornano in continuazione i temi del viaggio, dell'abbandono e della vita ormai agli sgoccioli: a mettere i brividi, questa volta, non sono le bordate cacofoniche di "From Her To Eternity", ma l'incedere lento, l'avanzare inesorabile dei ricordi. Cave continua a pagare il proprio tributo ai grandi demoni del passato (come accadeva, ad esempio, in "Well Of Misery"), calandosi nella parte del bluesman dolente e allucinato, riscrivendo in parte la cover di "Wanted Man" di Dylan, evocando lo spirito di Blind Lemon Jefferson.

La musica (con la sola eccezione, forse, di "Train Long-Suffering"), è ridotta all'osso: poche note di chitarra, pochi colpi di tamburo, battere di mani, archi opprimenti e decadenti ("Black Crow King"), una manciata di accordi su di un vecchio piano coperto di polvere. Basta la voce di Cave, sempre più "strumento a sé". Ora poco più di un lamento sussurrato, preghiera disperata e di redenzione ("Knockin' On Joe"), ora agghiacciante latrato di rabbia ("Tupelo"), si insinua ghignante tra le pieghe di chi si arrischia ad ascoltarla, per poi scaraventarvi tutto il proprio carico di rancore, fanatismo e frustrazione. Rimane l'esasperazione dei toni, rimangono le urla e gli abissi cavernosi della sua voce posseduta. Ancora più vivide sono le atmosfere da "thriller rurale". Eppure sembra quasi far capolino un assaggio di quella sconfinata dolcezza che caratterizzerà maggiormente le produzioni a venire: l'occhio di Cave non è meschino, il suo spirito non è accusatorio. Narra le gesta di questo suo mucchio strano di sbandati quasi con la compassione di chi c'è già passato, di chi il dolore lo conosce fin troppo bene.

A vent'anni dalla sua uscita, "The Firt Born Is Dead" rimane, a mio avviso, uno degli affreschi più sofferti e più belli di Nick Cave. È puro espressionismo musicale, intriso di poesia: un po' come scoprire i nervi dell'animo umano e suonarli come corde di un violino.

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