Facciamo un po' di giustizia. Questo disco, signori, è un bijoux.

Senza la pur doverosa esigenza di rifare i nomi del classico cantautorato che ispira i bellunesi (Tenco, Paoli, Mina...), senza chiamare in causa Sanremo e santi qualsivoglia, o la candidatura al premio Tenco 2006 per il miglior album d'esordio. I Non Voglio Che Clara - negazione, volontà e femminilità - hanno fatto dieci canzoni eccellenti e un disco che è un piccolo classico, più bello perché nascosto nel sottobosco, anzi, nell'aiuola (qui) curatissima dell'etichetta di periferia.

De Min, di nuovo, parla d'amore, in continuazione, anche dopo che nell'ep "Hotel Tivoli" sembrava aver prosciugato ogni possibilità di approfondire l'argomento senza svenarsi. E invece sempre lì ritorna, con testi che hanno qualcosa di crepuscolare (che li intona perfettamente ad arrangiamenti e note), qualcosa di provinciale (ma universale), di quotidiano (la macchina nuova, il lavoro, i risvegli), qualcosa di ossessivo e sfibrato, seguendo i fili dei sovrappensieri, che rimuginano e proiettano, con la realtà che si piazza sempre, regolare, di mezzo, e sfianca. Fossero tutti così a scrivere d'amore, non ci si stancherebbe mai, neanche ad essere cinici per forza o per posa.

La cosa stupefacente dei Clara è la capacità di arrangiare i pezzi, fino ai minimi dettagli, in modo sempre preciso e inappuntabile, con stile delicato, tenue e parsimonioso. Quanso (quasi ovunque) ricorrono agli archi; quando domina il piano piano-toccato da De Min; quando a puntellare i brani sono le chitarre, mai troppo invasive; nelle sfumature della batteria. I pezzi non sono mai costruiti in modo canonico: sono quasi tutti sghembi, irregolari, storti, quasi che le melodie avessero bisogno di una via di fuga per dare un respiro più ampio alla canzone, quasi a difenderla e proteggerla da possibili sfinimenti. Un esempio è il pezzo d'apertura, "Un Nome Da Signora", che, senza la minima ombra di ritornello, riesce ad essere limpidissimo, con gli archi a cullare una serie di chitarre che nel finale si moltiplicano con effetti labirintici. "Ogni Giorno Di Più" è il brano più regolare: la batteria, nel ritornello, martella, si fa secca, mentre gli archi e il piano alzano uno sfondo sempre più intenso. Chitarra e piano (e mandolino), "L'Oriundo": metafora calcistica dell'amore, con deliziosa melodia.

"In Un Giorno Come Questo" è un'altra perla, color seppia, dai risvolti più solari. Come in "Hotel Tivoli" (per cui rimando alla pregevole sfascia-recensione), sembra di sentire musica d'altri tempi, o meglio, fuori dal tempo. In "Sottile" sorprende la voce di Syria, in "Cary Grant" la mutazione dai passaggi iniziali, così minimali (alla Beth Gibbons), all'insieme pieno e trascinante del finale. Poi i pezzi più intensi. "Porno", autunnale, in cui il piano tesse con la chitarra un ordito amaro, con la voce di De Min, asciutta, che spoglia il brano fino a denudarlo. E poi "L'Avaro", in cui dominano tristi e ovattate atmosfere, fra sbilanciamenti e leggeri squilibri, con melodie che tornano asimmetricamente e momenti strumentali davvero disarmanti nella capacità di assecondare il percorso emotivo del brano (pietra miliare: e penso ancora alla Gibbons, sola e coi Portishead alle spalle, che pure sono un'altra cosa: ma "Roads", da "Dummy", non è affatto distante).

Disco lirico, sensibilissimo, bianco. Troppo facile da sgualcire, se non trattato come si deve. Magnifico, se cresciuto con cura.

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