Entri in un capannone industriale abbandonato, o meglio nella hall di una vecchia stazione dismessa del tempo dei treni a vapore, dell’America di inizio ventesimo secolo.

E trovi uno, accompagnato da un paio di amici, che suona e canta delle canzoni dal sapore antico, di una malinconia nostalgica dai toni giallognoli, walzerini folk, leggeri accenni di banda dell’esercito della salvezza, note di chitarre distratte che sanno di pioggia che entra dai lucernari rotti, che sembrano strappati dai solchi di un vecchio vinile trovato in un baule comprato al banco dei pegni.

Quasi una colonna sonora di sottofondo al tuo imbarazzo di trovarti lì per caso.

Ma in verità non sei in una stazione americana ma sei a Roma, ad un concerto per ascoltare uno dei tuoi idoli musicali dell’America nascosta di inizio anni duemila, Mark Linkous.

Poi torni a casa cinquecento kilometri più giù e sei in possesso di un album del suo gruppo spalla in quel concerto, otto anni prima che esca sul mercato, ma ancora tu non lo puoi sapere.

E quell’album a quanto pare è oggi molto difficile da trovare, persino su youtube (per questo, cari de-amici, non posso condividere neanche un sample, e mi dispiace).

Comprato direttamente, a quel concerto, dalle mani di uno dei membri del gruppo.

Disco bellissimo nel sembrare quasi una di quelle cassette registrate alla radio quando ci si metteva là e si aspettava che trasmettessero la tua canzone preferita, prima in hit-parade.

E di solito, prima che arrivasse, la cassetta si riempiva di altra roba e alla fine ti rimaneva, al di là di quello che cercavi, comunque almeno un altro pezzo che non conoscevi, prezioso e altrettanto bello, che avrebbe accompagnato le tue giornate, e i tuoi ricordi.

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