La tendenza dell'uomo John Dwyer a prendere parte di situazioni epocali per quanto neglette e relegate al lato scuro dell'underground americano è abbacinante per la sua frequenza. Con i Coachwhips eresse un monumento alla sporcizia sonora di un tal lerciume da suonar batteria di chiodi su ferro freddo. Con le altre bands approfondì quell'indie caciarone americano che oggi è sulla bocca di tutti i radicalchics, dal noise blues vero o presunto dei primi Hospitals, alla sublime insensatezza delle scorie Pink & Brown, fino ad episodi di techno omosessuale con la sigla Zeigenbock Kopf. Ma è qui, con gli Ohsess che pare davvero aver doppiato le sue personali colonne d'Ercole.

"Cool Death Of The Island Raiders" è un capolavoro di simpatia che vive di momenti in altalena tra il collasso è l'esplosione di stelle; chitarrini e falsetti che frizzano di efedrina ("The Guilded Cunt"), ralenti fino alla fine del mondo ("Turn Offs"), pastiches delicati di appoggi dai e vai tra voci, droni ed echi a nastri come se si trattasse di doversi calare ancora ("Broken Stems"), ballads che ci fanno inginocchiare e ringraziare gioiosi ("Island Raiders"). Il resto più o meno è un viaggio a ritroso in una foresta urbana, domestica e pesante allo stesso tempo, dove i suoni sono più delle parole, dove la melodia scivola in un candore efebico tra campanelli (d'allarme), sincopi, spazi pieni di feedbacks educati, sporcizie e paccottiglie da sbornia post nucleare che rendono il tutto più essenziale della parte, l'insieme prevalente sul dettaglio, il clima generale più forte di un momento (pur essendo tutte e undici le canzoni autonome e ricche di sempre nuovi polideri di luce protesi sul baratro).

John Dwyer non si sforza per apparire in quanto sostanza egli stesso, autore raffinato e bastardo allo stesso tempo, ipercreativo, casinista e arpeggiatore. Di queste persone abbiamo bisogno.

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