Nel ristretto ambito della musica rock molti artisti hanno cercato di trasformarsi, adattarsi ai cambiamenti, rivoltarsi come un calzino (mi sovviene "Society" di Brian Yuzna), ma pochi sono riusciti a rimanere loro stessi, senza rinnegare il loro passato e senza vendersi al trend musicale di turno. Gli esempi sono molteplici, i primi che mi vengono in mente sono i Radiohead, ma lascio a voi la scelta. Gli Oneida di questo "The Wedding" ben si inseriscono nella suddetta categoria. In senso positivo ovviamente.

Che volessero fare un disco diverso i nostri l'avevano già dichiarato, ma pochi si sarebbero aspettati un cambiamento musicale così netto e spiazzante. Scordatevi le chilometriche cavalcate chitarristiche, e sostituitele con tappeti di tastiere acide e arrangiamenti di archi, vagamente reminiscenti del famoso "Wall of Sound" di Spectoriana memoria. Aggiungeteci il cantato, merce rara nei precedenti album, presente in ognuna delle tredici tracce, virate il tutto in chiave psichedelica e a volte pop, e avrete un approssimativo ritratto del disco.

Disco che si apre con The Eiger, dolce filastrocca tutta viole e romanticismo, assurdamente vicina ai Motorpsycho periodo "Let Them Eat Cake". Lo spettro dei norvegesi riappare anche in altri episodi, alcuni splendenti nel loro essere perfetti condensati pop da singalong (August Morning Haze, la sublime litania di Run Through My Hair), altri meno focalizzati e un po' stucchevoli (Charlemagne e Know). Interessante la parsimoniosa scelta di utilizzare basi sintetiche, come nell'ipnotico incedere di Leaves, o nell'allegra e scanzonata High Life.
I vecchi Oneida vengono fuori in brani quali Lavender, in cui si riaffacciano le chitarre galoppanti, la batteria spadroneggia e la voce assurge finalmente a elemento portante, o in Did I Die, dove per 1'40" sembra di sentire un gruppo hard rock primi anni '70, per via del riff heavy e della voce urlata. I picchi rimangono i brani più ipnotici: Heavenly Choir (che di paradisiaco ha ben poco) cantata in semi falsetto e condotta da un inquietante piano; The Beginning is Nigh, basso portante, drumming sciamanico, tastiere spaziali, chitarra minimale e voce sussurrata tipo Roger Waters in Set The Controls; Spirits, spettrale e acida Venus in Furs del nuovo millennio.

Artisti camaleontici dunque, che dell'animale in questione carpiscono il significato simbolico e lo fanno proprio. La forma cambia ma il contenuto è sempre lo stesso. Ovvero: mi trasfiguro esteriormente, ma alla fine rimango me stesso.
Tanto di cappello agli Oneida per essersi messi in discussione senza perdere la faccia, ma, anzi, guadagnando ancor di più in rispettabilità artistica. Già da ora una delle migliori uscite dell'anno.

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