Nell'attesa che "Heritage" veda la luce, questione di settimane, gli Opeth ci deliziano con una release che unisce tradizione e innovazione. Ciò che rende possibile questo connubio è molto semplice: "The Devil's Orchard" (pubblicato esclusivamente da Rock Hard DE) non è altro che la performance degli svedesi al Rock Hard Festival '09, arricchita dall'omonimo brano, ultimo singolo della band, che ha l'onore e l'onere di aprire il disco.

Negli ultimi mesi "Heritage" è stato un argomento caldo e dibattuto all'interno della metal community: tra una miriade di indiscrezioni e voci di corridoio l'unica certezza era la totale diversità del suddetto da quanto udito finora: suoni vintage e canto interamente pulito. Il pensiero corre subito al noto "Damnation": nulla di più sbagliato.

"The Devil's Orchard" è una canzone dalla potenza inequivocabile, merito non tanto del sound rinnovato, tra sventagliate di organo e basslines formidabili, quanto di un groove che non ha precedenti nella storia degli Opeth, nemmeno nello sperimentale Watershed. Nei suoi sei minuti e mezzo è impossibile non cogliere il celebre tocco di Mikael Åkerfeldt che, stavolta, ha veramente tirato fuori le famose influenze settantiane che caratterizzano il suo songwriting progressivo, soprattutto in termini di sound.

Per quel che riguarda il concerto tenuto all'Amphitheater Gelsenkirchen nel 2009, poco da dire: una scaletta succinta (cinque brani per un'ora di esibizione), volta a valorizzare gli album del successo internazionale (Heir Apparent, Ghost of Perdition, The Leper Affinity, Hessian Peel e Deliverance le canzoni selezionate per l'occasione). Come è lecito aspettarsi, la prova degli svedesi, salvo un paio di impercettibili errori, è da dieci e lode: solidissimi e coesi i pilastri Mendez e Axenrot; abile ed elegante Per Wiberg, che aggiunge efficaci ornamenti alle canzoni; fenomenale Fredrik Åkesson e, ovviamente, Åkerfeldt immenso, micidiale sia alla chitarra che dietro al microfono: dopo una prima mezzora più incazzata e concisa prende il largo una dimensione animalesca e passionale che non può far altro se non confermarlo come uno dei migliori, anche in veste di intrattenitore (Wie geht's? My name is Michael Hübsch!). Poca post-produzione non può che rendere l'esperienza ancora più piacevole.

In conclusione: da un lato, un singolo che lascerà spiazzati, sia in positivo che in negativo, i fan di vecchia data così come i novizi, dall'altro, un'esibizione convincente e gradevole che sarà sicuramente apprezzata da chi già è avvezzo alle dinamiche della band e, perché no, anche da chi poco o niente conosce di questo straordinario gruppo svedese.

Aspettando Heritage... 8/10.

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