Storia essenziale della musica elettronica 

 

X. Quelli del Synth pop e altre malinconie 

 

 

Gli anni '80 furono, in buona sostanza, uguali a se stessi. Chi si sia cimentato a cercarne una frammentarietà ha ricevuto la più cocente delusione: nell'epoca del Post-punk di Siouxsie, dell'Hardcore degli Hüsker Dü, della seconda era industriale canadese, il fenomeno incontrastato capace di fagocitare tutte le altre derive fu il Synth pop. Sulla scia dei fenomeni danzerecci targati KC & The Sunshine Band, Donna Summer e Bee Gees, la musica popolare si rivestì dell'abito sintetico senza voler strafare, attraverso una semplicizzazione della melodia atta solo ad attirare nella sala da ballo la maggiore pletora possibile. E' il decennio delle spalline imbottite, dei gilet neri, dei parrucconi laccati, l'era dei pochi fenomeni, dei Duran Duran, Tears For Fears, Spandau Ballet, Soft Cell, ma anche delle molte meteore, di Baltimora, a-ha, Q Lazzarus, Buggles. La formula era molto semplice: un collettivo con una conoscenza molto sommaria della composizione musicale, un buon tecnico del suono, un sex-symbol aggiornato agli '80 in grado di ricuperare la tradizione canora pulita e intonata dei '60. Forse con troppa autoindulgenza ecco venire alla luce una sequenza di numerosi fenomeni easy-listening tutti imperniati sugli stessi pochi accordi, sound paritetici, timbri vocali complessivamente monocordi. Lo scenario appare paradossalmente abbrutito, senza speme, troppo pieno di richiami nazionalpopolari preclusi all'investigazione, un turibolo in grado di dispensare gli incensi effimeri della sala da ballo. Che cosa rimane?

Ora per coloro che hanno vissuto questi anni non è nemmeno lecita una simile domanda, perché non è lecito tentare di formulare una risposta sensata. Gli '80 sono stati, nella loro continuità di intenti, gli anni più identificabili. Nell'immagine sfocata di Tony Hadley che si industria a canticchiare del suono dell'anima o in un cartone a fumetti dove Morten Harket gioca tra reale e surreale, ognuno che abbia vissuto gli '80 si rispecchia geloso del proprio passato, senza connessione logica, con un'insospettata attrazione per la labilità del tempo. Suonavano, questi anni, senza né alti né bassi, tanto uguali a se stessi da apparire come una lunga malinconica nenia, ordinati da sequenze di synth e percussioni elettroniche: non più le Malebolge dei '70, le distorsioni labrintiche, il gusto per la frammentazione, la sperimentazione caotica. Negli anni '80 si è palesato in atto il decadentismo della musica popolare moderna.

Nulla, nella celebrazione di questa epoca, può essere passibile di un giudizio concreto: il compito è affidato alla memoria di chi questa decade l'ha indossata. Chi non ne ha ricevuto in sorte nemmeno un brandello di abito, lo faccia secondo il suo comodo con un disco come "Organisation" degli Orchestral Manoeuvres in The Dark, magari passando dalla cantilena puerile di "Enola Gay" al timbro carezzevole di "2nd Thought", dalla sorte inquieta di "Misunderstanding" allo scherzo in minore di "Motion and Heart", dal chiaroscuro dannunziano di una memoria arcana alla distinta nozione di un'appartenenza sacra, inspiegabile, interiore, al mito ineffabile che furono i magnifici anni '80.

 

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