Complicato per qualcuno accettare l'idea che Peter Tagtgren, vero e proprio re dell'eccesso e del metal estremo, conosciuto per le sue scorribande nelle fila dei Death metaller Hypocrisy, abbia dato libero sfogo ai suoi cromosomi di autentica ecletticità musicale conducendo i Pain, che nel 1996 erano solo una valvola di sfogo, un progetto estemporaneo, al traguardo del quarto studio album quasi dieci anni dopo. Sperimentazione sembra essere la parola d'ordine di Peter, l'unico denominatore che riesca ad accumunare le sue molteplici attività. L'amore per la musica in quanto tale, indipendente dalle sue multiformi espressioni ed elementari catalogazioni è ciò che affiora prepotentemente nel corso dei pezzi che compongono ''Dancing With The Dead''. Una musica elettronica infarcita di tastiere quasi ai confini con la disco e la techno music, accorpata comunque a grondanti distorsioni di chitarra e ad una voce, quella di Tagtgren, che appare ora rabbiosa ora più accattivante, gettando le basi per l'originale mix ostentato dai Pain in questo lavoro.

Malinconica, vivace, sferzante, melodica, gagliarda, ossessiva, destabilizzante, caratterizzata spesso e volentieri da ritornelli di semplice assimilazione e di chiare reminescenze Pop; è questo che contraddistingue la musica realizzata dalla penna di Peter, una musica che mi piace definire ''da macchina'', da viaggio, in due parole: easy listening.

L'opener ''Don't Count Me Out'' e la title-track sono particolarmente massiccie e cattive mentre è con il primo singolo ''Same Old Song'' che si accendono gli animi: suggestiva l'atmosfera tracciata dalle spettrali keyboard, penetranti la voce e i sofferti screaming di Peter; ''Nothing'' e ''The Tables Have Turned'' presentano refrain forse troppo ripetitivi tuttavia maledettamente catchy che ti si stampano in testa dopo due ascolti, ma la palma d'oro per la migliore composizione del platter va a ''Not Afraid To Die'': una canzone che conquista dall'inizio alla fine con il suo divenire Gothic/Pop memore dei Crematory più impavidi. Meritano attenzione, a metà disco, anche l'accoppiata ''Tear It Up'' e ''Bye/Die'', di sicuro le due tracce più bislacche: nella prima le linee vocali principali ricordano non poco Eminem(!), sebbene l'onnipresente distorsione di chitarra pesti duro per mio sommo gaudio; nella seconda si percepisce invece una specie di improbabile fusione tra il Power-Pop dei Terrorvision e il new-punk minimale. L'ultima parte dell'album risulta un pò più scontata e canonica (''My Misery'', ''Stay Away'')  anche se, a ben vedere, la tensione ed il sollazzo non calano eccessivamente, neppure quando la ruffiana ''The Third Wave'' pone la parola fine a questi 47 minuti di promiscuità.

''Dancing With The Dead'' conquista ascolto dopo ascolto con la sua disarmante immediatezza, la sua disinvoltura e crescente passione. Non è un'opera da avere ad ogni costo, lo avrete capito, ma per una volta genuinità, progresso, inventiva e coinvolgente songwriting convivono con successo.   

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