Un passaggio a nord-ovest per il post-folk di Pajo

La prima idea che ci si fa di David Pajo è quella di un ragazzo timido, discreto, apparentemente ininfluente. Intanto però lui nel suo angolino lavora. Con gli Slint. Poi con i Tortoise. Qualche volta si fa vedere con gli Stereolab. Sempre lì, in quell'angolo, pronto a cambiare la storia della musica americana. Se non cambiare, almeno a dare una svolta notevole. Anche con i suoi monikers: M Is The Thirteenth Letter, M, Papa-M, Aerial-M. E ancora con Bonnie "Prince" Billy, un altro tizio che in quanto a cambiare nome non è da meno, anzi! Poi con gli Zwan, creatura fallimentare (nei risultati, non negli intenti) di Billy Corgan. Me lo ricordo ancora David Pajo in concerto con la band a Milano, nascosto dietro un'amplificatore a fare il suo semplice lavoretto piegato sulla chitarra, a guadagnarsi la pagnotta, il palco preferisce lasciarlo alla Zucca e a Sweeney.
La prima idea che ci si fa di David Pajo è quella di un ragazzo che alle feste se ne sta appartato, e probabilmente è così. Parla solo agli invitati che hanno orecchie per ascoltarlo, la pista preferisce lasciarla a personalità più appariscenti. David Pajo, una di quelle persone con cui è sorprendentemente piacevole parlare. Acuto, interessante, mai snob. Se decide di dare una sferzata all'underground negli anni '90, lo fa senza menarsela troppo. E lo dimostra sfornando con i suoi Papa M un album lo-fi, acustico, estremamente piacevole. Che a guardar bene, non è solo piacevole, ma illuminato, geniale. Che a sentir bene, non è solo acustico, ma anche ben altro.

Mentre "Over Jordan", "Sorrow Reigns Blue" e "Roses In The Snow" sono lucide e delicate, "Krusty" (come il clown?) è costruita su arpeggi e divagazioni leggermente noise, e "Many Splendored Things" ricorda da molto vicino "He Was A Friend Of Mine" del giovane Bob Dylan più malinconico. In "Glad You're Here With Me" sopra le soffici tessiture chitarristiche e vocali si staglia un assolo di armonica combinato con qualcosa di sintetico (una chitarra trattata?) che dà una lieve sensazione dolorosa, ma niente di lancinante. "Sabotage" è inquietante come la purezza dei paesaggi de "Il senso di Smilla per la neve", e poi improvvisamente un intermezzo di sitar ci porta in Tibet, come a completare in un'atmosfera sacrale questo algido panorama... e se crediamo che la creatura multiforme sia alla fine ci siamo sbagliati: si fa più ritmata, la chitarra riprende il percorso velocizzandolo, i rapporti tra gli accordi ritornano convenzionali, e ci troviamo al cospetto dei Beatles lisergici. "Purple Eyelid" in tutta la sua orecchiabilità risulta comunque estraniante, perchè David Pajo sarà pure timido, ma gli piace stupirci con i mezzi che gli sono più congeniali, cioè il post-folk e un accennato rumorismo sullo sfondo, che si sublima nell'incanto strumentale dell'ultimo brano, "Northwest Passage".

L'opera è preziosa, non si esaurisce in pochi ascolti. Non è il tipico disco da assorbire al primo colpo o da sentire per un mese di seguito. "Whatever, Mortal" è un disco cui dedicare pochi momenti ma giusti: un viaggio verso le Alpi, un passaggio a nord-ovest. "Whatever, Mortal" è il suggerimento di un ragazzo conosciuto ad una festa, con cui ti sei soffermato a parlare in un angolo appartato, lontano dalla musica ad alto volume, dagli schiamazzi alcolici delle altre persone, da chi vuole il palco per sè.

"Sabotage"

"Sabotage, all the lights at sea
destroy your chances, sail in darkness
prove that you are free, sabotage
(I am the shepherd) all the lights at sea
(come you flocks to me) destroy your chances
(and the butcher) sail in darkness
(we work together) prove that you are free"

 

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