Essendo uno dei miei gruppi preferiti, non mi sono fatto mai sfuggire nulla di nulla di questo quartetto, compresa questa pubblicazione in forma di doppio LP o CD singolo apparsa nel 2015. Puntualizzo che la strepitosa formazione jazz/blues/rock in questione ci ha lasciato solo tre album ufficiali, uno ogni anno dal 1970 al 1972, più un quarto lavoro a suo tempo rifiutato dalla casa discografica nel 1973, uscito alfine postumo nel 1995.
Delle 15 canzoni presenti, solo poche sono inedite, a suo tempo scarti delle registrazioni dei loro dischi. La maggior parte dei brani sono recuperati dalle mitiche “BBC Sessions” che negli anni sessanta e settanta furoreggiavano al di là della Manica e che vedevano coinvolti più o meno tutte le realtà musicali sulla cresta dell'onda. Si trattava di uno strano ibrido fra Live e Studio Sessions. Gli artisti suonavano dal vivo, davanti ad una limitata platea di astanti, in un teatro/studio attrezzatissimo, perciò ripresi con estrema qualità da microfoni e macchinari governati dall’esperto personale tecnico alle dipendenze dell’Emittente di Stato britannica. Dopodiché si provvedeva, talvolta e se necessario, ad integrare in studio le riprese dal vivo, aggiungendo o correggendo sezioni strumentali e vocali. Nel tempo, tali registrazioni sono fuoriuscite ad una ad una dagli archivi BBC, andando a costituire centinaia di lavori “a babbo morto”, vere chicche per gli appassionati.
Che dire dei Patto… la perfezione in quanto a gruppo coeso, originale, creativo, ironico fino al farsesco, brillante, persino virtuoso (la chitarra, e di brutto!) e tosto (la batteria, rocciosa come poche altre). Una vera spugna intrisa di rhythm & blues, jazz, rock, Zappa, Beatles, hard, be-bop, blues, funky, da strizzare con gioia e per sempre. Ascoltando questi “concerti in studio” del 1971, mi scopro a notare quanto jazz ci fosse agli inizi di carriera del gruppo, quante improvvisazioni, quanto uso del vibrafono percosso dalle sapienti bacchette di Ollie Halsall, poi via via abbandonato per dedicarsi a pianoforte e soprattutto chitarra. E che superbo cantante Mike Patto, la giusta voce rock collegata perfettamente al jazz e al blues, ironica e comunicativa, potente ed estesa, tenera ed arrabbiata, ingenua e simpatica.
Ma Ollie Halsall? un genio, un fuoriclasse luminoso, fragoroso ma astronomicamente sottostimato e sfortunato, lui che neanche quarantenne non aveva trovato di meglio che auto esiliarsi nell’isola di Maiorca, campando di marchette e concertini per i gruppetti di rock e pop spagnoli, comprese le cover band dei Beatles, oppure star dietro all’attività dell’amico Kevin Ayers, l’unico che se lo filava: inaudito, ingiusto, inverosimile, inammissibile, grottesco, assurdo, irritante, doloroso.
Fate due cose se potete/volete. La prima è impegnativa: capitaste, in vacanza o per qualsiasi altra ragione a Maiorca, prendete dal lungomare la salita fino al paesino di Dejà, a ridosso della costa nord occidentale. Nel suo cimitero, posto a belvedere sul Mediterraneo, vi è la tomba di questo dio minore del rock. La si distingue perché la piccola lapide ha avvitate nel marmo due manopole di chitarra elettrica!
La seconda cosa è di andarvi a sentire “Dance to My Tune” dei Tempest, la band a cui passò Halsall dopo la fine dei Patto, anch’essa criminalmente durata troppo poco causa insufficiente successo. Il brano è uno svelto e rumoroso rock blues, normale, niente di speciale, ma al terzo minuto tutto si acquieta e parte l’assolo di Halsall, in crescendo sopra lo splendido lavoro della sezione ritmica (Jon Hiseman alla batteria, un altro dio minore), colla naturalezza infinita della jam session fra gente brava, ma proprio brava, e col cuore al posto giusto. Dura quasi tre minuti ed è semplicemente il miglior assolo di chitarra che io conosca. E ne conosco a migliaia.
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