Il sonoro che ti avvolge e la camera bassa che striscia sull’asfalto sempre più veloce ti risucchiano fin dentro la scena. Le ondulazioni della strada diventano delle onde vere, e il film ti fa surfare su quel mare di bitume con un crescendo di inquadrature che trasforma il paesaggio in un corpo vivo e pulsante. Quell’effetto quasi tattile nasce anche dalla scelta di girare molte sequenze in VistaVision, con fotogrammi orizzontali più ampi del tradizionale: una fotografia che ti restituisce vibrazioni, polvere, creste dell’asfalto come se le stessi toccando, cazzo! Non sai come sia possibile, ma all’improvviso sei lì, dentro quelle onde d’asfalto gigantesche; le cavalchi, e anche se sei seduto su una poltrona del cinema senti il vento, i bassi che ti spingono nel petto e quella voglia di aprire le braccia e urlare. Una scena esteticamente perfetta, di quelle che ti fanno ricordare perché il cinema esiste ed è giusto assaporarlo sul grande schermo. E ti fanno dire che è talmente bello che, sì, ci spendo pure 10 minuti e ci scrivo anche una recensione bella lunga che non leggerà nessuno.
Ma al di là di questo splendore visivo, sotto la superficie corre una nazione spezzata. L’America è dilaniata dall’interno. Non credo che serva essere analisti con i contro zebedei per accorgersi di quanto la società statunitense e, per estensione quella occidentale, sia ormai polarizzata, incapace persino di discutere in ambito accademico. Incapace di ascoltarsi, si odia; incapace di comprendersi, si disprezza. E quando va bene, per non dire benissimo, si ignora.
Il film di Anderson parla proprio di questo caos. E il risultato è inevitabilmente confusionario e non solo per scelta artistica, ma a volte anche per limiti strutturali. L’ambizione è enorme: satira, dramma, grottesco, azione, politica, melodramma, parodia e tragedia convivono in un unico corpo lungo 162 minuti. Ma quando provi ad abbracciare tutto, spesso qualcosa resta fuori fuoco. Rappresentare il caos non dovrebbe significare costruire un film caotico. O forse sì? Ci devo pensare.
Anderson ti lancia dentro la giungla sociale, psicologica e politica di un paese che implode, usando salti temporali, ellissi brusche, variazioni di tono e di ritmo che mimano una mente collettiva in stato di shock. È una scelta potente, ma anche rischiosa: perché quando tutto si spezza, lo spettatore rischia di perdere non solo la direzione, ma il coinvolgimento. Per ovviare a questo però ci sono i personaggi. Straordinari da guardare, irresistibili, interpretati in modo magistrale ma anche schiacciati dalla loro stessa natura caricaturale che è fortissima.
Bob, interpretato da DiCaprio, è un allucinato rivoluzionario che sembra un incrocio tra il Drugo e Belfort: un personaggio “totale”, ma spesso più simbolo che uomo rappresentazione vivente della pazzia imperante che alberga nelle nostre menti. La sua compagna è fuoco puro, passione e follia in un corpo e in un nome magnifico, (Perfidia Beverly Hills), che non trova pace; e proprio per questo rischia di diventare una figura già decisa dalla sceneggiatura più che dalla vita. Sean Penn è magnifico nei panni del militare rigido, ossessionato, guidato da un codice morale distorto che esprime più con le movenze del corpo e il tono della voce che con le parole. Benicio Del Toro, santone-karateka, è quasi una figura da graphic novel, un mélange di Splinter e Mr. Wolf che funziona sul piano spettacolare, ma ti ricorda continuamente che stai guardando una metafora vivente più che un essere umano.
Il film è pieno di trovate brillanti, suore che coltivano cannabis, società segrete di suprematisti bianchi, deserti e metropoli che si alternano senza logica apparente, ma questo continuo scivolare di toni può frammentare l’emozione. A volte sembra che Anderson si innamori talmente delle sue parentesi da dimenticarsi la traiettoria emotiva principale.
Alla fine, resta la sensazione di un gigantesco minestrone: pieno di sapori, alcuni deliziosi, altri meno armonizzati, tutti convinti di voler convivere nello stesso piatto. Il film vuole dire tutto, ma rischia di non far entrare nulla in profondità. Eppure, è proprio in questo caos che si riflette il nostro oggi. L’America del film potrebbe essere quella di oggi, domani o un futuro prossimo. Quello che Anderson fotografa, a volte con genialità, a volte con troppa enfasi, è la confusione in cui siamo immersi. Una realtà dove ogni giorno perdiamo un riferimento, un punto d’appoggio, una certezza del passato.
E quindi sì: non ci stiamo capendo un cazzo.
Io spero solo di non finire come quell’inseguitore lanciato a tavoletta, convinto di raggiungere il suo obiettivo, talmente accecato da non rendersi conto che ha perso la strada, e sé stesso, già da tempo.
Viva la Revolution! A me è piaciuto. Direi 3 stelle belle piene ma poi ripenso alla scena delle onde di asfalto.
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