"The Modern Dance" sarebbe bastato ed avanzato da solo. Se gli Ubu si fossero fermati alla Danza più importante ed influente del Rock, la storia sarebbe stata loro conquista comunque. Non capita spesso di esordire su LP con un botto simile. Un disco assolutamente atipico e per il contesto in cui nasce, e per la sua attitudine visionaria. Cieli industriali e grigia alienazione urbana dipinti con tocco espressionista satirico, che si esplicitava principalmente da un lato con i grotteschi ululati di Thomas, dall'altro col synth sociopatico di Ravenstine. Il garage rock veniva destrutturato e ricomposto dai singhiozzi di chitarra di matrice funk di Tom Herman fino a nasconderne i brandelli. Krauss e Maimone applicavano il concetto di anarchia alla sezione ritmica.

Dopo un "Dub Housing" caratterizzato da convulsioni epilettiche sonore al limite, nel 1979 è la volta di "New Picnic Time", e la differenza con l'esordio si fa sentire immediatamente. Laddove la Danza si stagliava su scenari industriali polverosi, qui sembra che Thomas & Co. si muovino goffamente e lentamente tra gli abissi marini. Vuoi per l'influenza di Mayo Thompson, il sound si sposta marcatamente verso lidi psichedelici. Gli strumenti perdono quasi totalmente la vecchia carica garage, smorzata dalle atmosfere liquide che permeano il disco. L'avanguardia non ne risente, anzi semmai viene addirittura accentuata e gli echi di Beefheart e Red Crayola sono più palesi che mai.

L'iniziale "The Fabulous Sequel" , una tra le tracce più robuste, rappresenta il tipico stile Pere Ubu. Ma già con la successiva  "49 Guitars & One Girl" si entra in un vortice dadaista ossessivo. "A Small Dark Cloud" è musica concreta con un Thomas dal canto sconclusionato e delle percussioni apocalittiche ma disperse e frammentate tra il caos sonoro. I due accordi  di chitarra apatici di "All The Dogs Are Barking" si trascinano con sufficienza per tre minuti mentre David recita il suo copione più abulico del solito. "Make Hay" rimanda all'indimenticabile funk stralunato di "Humor me",  con in più un intro rock-blues malsano. In "Goodbye" la tensione sale alle stelle e Ravenstine costruisce un ponte di Synth che percorre l'intero pezzo, a mo' di sirena galattica, e l'organo interviene per rendere il momento piu drammatico, ma anche più umano. "Voice In The Sand" forse è il momento più intenso , uno scenario post - apocalittico dopo la conclusione di una guerra nucleare. Il suo minuto e mezzo scarso poteva però svilupparsi in maniera più interessante, risultando cosi un'idea soltanto accennata ed incompiuta.

Il tribalismo timido di "Kingdom Come" chiude questa scampagnata più impressionista rispetto al passato, dove alcuni passaggi sembrano proporre una visione diciamo piu edonista ed autoindulgente della realtà pereubiana (per quanto possibile per una band del genere), forse perchè il sound del gruppo di Cleveland si stava cristallizzando in uno stile riconoscibilissmo e personale, ma che giocoforza album dopo album non rappresentava più una novità assoluta, nonostante l'indubbia evoluzione stilistica avvenuta con questo gustoso Picnic.

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