“Dal debutto dei Peste Noire, ho sempre difeso la visione di un Black Metal che deve incarnarsi nel reale, mescolando arte e violenza come i trovatori mescolavano l’uso delle armi con la pratica della poesia”.

La Sale Famine Von Valfunde, anima e cuore pulsante del progetto Peste Noire e di quella strana “anarchia nazionalista” che solo in Francia poteva nascere, è tornato.

In attività dal 2001 con un demo dal titolo a dir poco emblematico, i Peste Noire (KPN), piaccia o meno, rimangono uno dei gruppi più incredibili del panorama estremo internazionale; la loro vena provocatoria e dissacrante, scorretta all’ennesima potenza e blasfema, li ha relegati a gruppo di culto fin dagli esordi. Per quel che riguarda la storia artistica e biografica del suo tormentato e geniale fondatore, rimando alla babele di internet, labirinto intricato e denso di ogni gossip possibile e immaginabile, del resto il messaggio socio-politico in questo caso è strettamente connesso a quello del “suono”, Famine lo ha chiarito fin dagli esordi…

Questo spazio però è dedicato alla musica e di quello tenterò di parlare, anche perché, oltre alla provocazione e all’immagine eccentrica, fuori dagli stessi canoni del Black Metal dal quale vengono, i PN hanno portato l’estremità sonora ad esplorare territori e modelli diversi, mischiando musica popolare della loro Terra a generi “alieni” ai classici canoni del genere. Questo nuovo lavoro nasce sotto l’ala di Militant Zone e di un certo Alexey Levkin, un russo folle ed estremista, a sua volta padre del progetto musicale Moloth e non aggiungo altro. Il titolo suggerisce una sorta di divisione dell’album stesso in due parti, dette rispettivamente: traditional e degenerate part.

La prima parte vuole i nostri artefici di un Black Metal che tutto sommato rispetta alcuni dei canoni classici, l’opener Aux armes, come le successive quattro tracce, non deluderanno i fan più affezionati e non mancheranno i segni dell’ironia e della ferocia tipica di Famine in pezzi come Songe viking, cui si azzarda un omaggio di bathoriana memoria o ancora in Raid èclair, che vede la partecipazione dello stesso Levkin, così come in 666 millions d’esclaves et de déchets, dove le cavalcate sonore e le parti rallentate non mancheranno di riportare alla memoria i migliori momenti dei precedenti lavori del gruppo.

La “parte degenerata” inizia con un annuncio di un paio di TG francesi che parlano proprio dei PN ed introduce quei cinque brani che vedono di nuovo la vena dissacrante e sperimentale (nonché strafottente e coraggiosa) di questa squadra, venire a galla. Premetto che chi scrive non è attento ne conosce la scena Rap internazionale e tento meno quella francese, quella Trap ancora meno, ma tranquilli, praticamente quasi nessuno di chi segue il gruppo avrà queste competenze e non c’è nulla di cui scandalizzarsi… Sperimentazioni elettroniche e metriche rappeggianti erano già loro appannaggio in altri mirabili lavori (ad esempio quel capolavoro assoluto che è L’Ordure…) e francamente non comprendo le molte lamentele che vado leggendo dalla data di uscita dell’album, questa seconda parte non mi sembra ne scollegata completamente dalla prima e tanto meno mi sembra che “tradisca” le ambizioni di Famine & soci, dato che l’impronta e lo smalto che è un marchio di fabbrica del gruppo è presente fino all’ultima nota. La voce è sempre tagliente e quasi unica nel suo genere, la tensione dei pezzi regge così come nelle sonorità pesanti e a tratti lentissime di Des médecins… o nella successiva Turbofascisme, che cresce ascolto dopo ascolto. Del resto, ragazzi, qui non stiamo ascoltando un album Trash di fine anni ’80, questa è roba cui ci si deve dedicare, ci sono sfumature e accostamenti che non possono in nessun modo essere assorbiti dopo un ascolto e mezzo, magari dal tubo (metodo sempre più diffuso purtroppo) … La recensione arriva in ritardo anche per questo motivo, non si tratta del brano pop da spiaggia, qui c’è altro, per chi ha tempo e reale interesse. Tornando alla musica, Aristocrasse, già uscito come singolo, è l’emblema assoluto e l’inno di questa seconda parte, ascoltare per credere! Domine conclude questo ennesimo viaggio: un vagito di neonato, tamburi rullanti e un’atmosfera misticheggiante e, concedetemelo, “pestilenziale”, chiudono lentamente il sipario su questo excursus sociale e musicale assieme.

I PN ancora una volta confezionano un lavoro ispirato, lontano dai cliché e dall’ortodossia di certa critica specializzata, fottendosene ancora una volta di tutto e tutti, urlando in modo scomposto e irriverente il loro pensiero. Qui si scontrano subculture diverse tra loro ma allo stesso tempo affini nel vomitare sul modello di società imposto dal mercato; Famine ha dichiarato che qui si respira l’aria delle periferie degradate dei sobborghi di Kiev, dove vive da qualche tempo, lui stesso dipinge la sua visione in modo volutamente offensivo, teatrale e farsesco, a partire dalla copertina e dai contenuti grafici. Non per sminuire il conflitto sociale che la sua Francia e gran parte dell’Europa vive, ma per sottolinearlo ed estremizzarlo così com’è, piaccia o meno… Senso di appartenenza, differenze, intolleranza, rabbia, violenza, degrado ed orgoglio, così come le strade metropolitane ce li presentano ogni giorno, sono riprese ed elaborate tanto dalla ferocia dei PN quanto da quella dei rapper delle banlieue, senza esclusione di colpi, anche bassi. Un piccolo trattato sociale e sonoro, per molti anche odioso e “bastardo”, questo Split dividerà e divide, com’è normale e giusto che sia, qualcuno lo apprezzerà, per altri ci vorrà qualche anno, altri ancora lo cestineranno subito dopo, ad ognuno il suo, del resto, citando il sig. Famine: “Sinceramente, me ne fotto. Quel che è fatto è fatto”.

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