Nel difficile tentativo di riuscire con successo nell’arduo compito che mi ero prefisso prima di mandare la recensione di “Spheres”, ovverosia recensire gli ultimi tre lavori dei Pestilence (la recensione di “Malleus Maleficarum” la lascio al prode BathoryAria, che la farà certamente…vero?)
incontrando i favori di voi tutti, mi appresto a completare l’opera con questo “Testimony Of The Ancients” del 1991 (ma và?), terzo lavoro del terzetto (eh sì, qua erano in tre per ragioni che spiegherò più dettagliatamente nelle righe a seguire) olandese che ha saputo, nel corso degli anni, conciliare eccellentemente il death metal più feroce al jazz fusion più tecnico e musicalmente sublime.
Successore del violentissimo disco schiacciaossa del 1989 “Consuming Impulse”, gran raccoglitore di favori da parte di critica e fans, che aveva visto i nostri alle prese con il death più puro, veloce e violento emulando le gesta epiche di band come Napalm Death, Morbid Angel, (primi) Death, Deicide, Obituary con influenze chiaramente slayeriane e kreatoriane (si scrive così?), quest’attesissimo disco, che era stato annunciato da Patrick Mameli come “più melodico e intelligente” del predecessore, si rivelò davvero un gigantesco salto di qualità, con melodie più orecchiabili e lente, canzoni infarcite d’assoli ultramelodici (magnifico quello di “Land Of Tears”), forse anche grazie alla dipartita del cantante-bassista-leggenda Martin von Drunen, andato negli Asphyx: von Drunen era, infatti, il cosiddetto “metallaro duro e puro” del gruppo, poco incline a “melodicizzare”le song e il sound generale del gruppo, che a detta di Mameli “cominciava a stancarsi del solito casino”.
Se da una parte, però, la dipartita di Martin segnò la fortuna della band, che si trovava così a poter respirare più ampiamente e a sperimentare liberamente portando così la band ad uno standard tecnico-compositivo che nulla aveva da invidiare alle techno-death metal bands contemporanee, dall’altra lasciava il gruppo privo di cantante e bassista (quest’ultimo, soprattutto, fu per la band il classico “ruolo maledetto”, analogamente a quanto successo agli Slayer con i vari batteristi).Ma Mameli & company non erano certamente i tipi da prendersela comoda, rimpiazzando il growl spaventoso e cavernoso di von Drunen con il passaggio da chitarrista a cantante-chitarrista dello stesso Mameli e (udite bassisti udite) arruolando temporaneamente IL bassista del tempo, quel pazzoide jazzista sovrumano che rispondeva al nome di Tony Choy, che al tempo militava nella band di Masvidal e Reinert (i Cynic, per chi non lo avesse capito) per poi essere rimpiazzato da un altro “signore bassista”, Sean Malone, e andando a lavorare negli Atheist.
Appunto l’arrivo di Mr.Choy portò una ventata di “orientalità” nel gruppo: questa, unito al fatto che da un pezzo il mastermind Mameli aveva preso ad ascoltare jazz fusion, fu la causa della magnificenza del disco, essenzialmente prog-death con accenni fusion.
Otto pezzi, intervallati da altrettanti “stacchetti” strumentali magari non sempre funzionali ma davvero carini (“Impure” mi piace un casino uahahaha), portarono il disco al pari degli altri capolavori del tempo: ma l’elemento che elevava ad uno spessore ancora maggiore il disco erano i testi, che avevano subito un’ennesima maturazione da quelli già maturi di “Consuming Impulse”.Il disco, come potrete facilmente capire, è un concept album sulla vita e l’esistenza (“Testimony Of The Ancients: The Quest For The Truth Of Existence”) e non mi preoccupo affatto ad affiancare la qualità dei suddetti testi a quelli del contemporaneo capolavoro “Human” dei Death.
Musicalmente, il disco si presenta molto aggressivo, con un’eccellente parte strumentale sovrastata dal bellissimo growl di Mameli (mi sembra molto simile a quello del povero Chuck) e dal drumming imperioso di Foddis, regolarmente seguito dalla potenza radicale del basso semplicemente spaventoso di Choy, che sebbene non sia ai suoi massimi livelli (ha dovuto impararsi tutte le canzoni del disco in un solo giorno!!!) offre una prestazione assolutamente impeccabile, con passaggi e piacevoli interventi, che raggiungono l’apice nella sua bellissima “Soulless”, dove mischia accordi a note singole con una pulizia stupefacente.Sicuramente siamo di fronte ad uno dei migliori bassisti che il metal (e non solo) abbia mai avuto.Meritano senza dubbio una nota le due asce, che tagliano e spaccano a dovere, e in cui segnalo il gran salto tecnico-qualitativo del secondo chitarrista Uterwijk, mentre Mameli è come al solito ai suoi massimi livelli.Devo ancora decidere quale mi piaccia di più tra questo e “Spheres”.
Prog-death, senza mai tralasciare le proprie origini thrash, con elementi di fusion, suonato impeccabilmente da quattro maestri che hanno saputo innovare il genere senza mai dimenticare da dove vengono: cosa si può chiedere di più?

Carico i commenti... con calma