Riflettendoci, non ho mai (o quasi) recensito nuove produzioni, nuovi sforzi artistici. Vado, sempre, a riparare sui classici, sul già visto e sentito, ma non è cosa programmata – piuttosto spontanea attrazione, pulsione verso artisti e opere che fanno parte della mia vita di ascoltatore, che inevitabilmente fanno parte del passato, che si trascina fino all’oggi. Eppure, la concezione di “nuovo” non è unidirezionale, anzi si apre a vari significati, come quello di “fresco”, di “SEMPRE nuovo”.

In questo senso, molti lavori (di mente e di anima) di Peter Gabriel sono sempre nuovi, ancora oggi risplendono, non vi si deposita la polvere.
US” risale al ’92, ma ancora parla di noi – e di loro (“them”). La co-produzione di Daniel Lanois, già presente all’appello sei anni prima, in veste di arrangiatore e produttore di quello che sarebbe diventato il best-seller di Gabriel, “So”, sortisce l’effetto desiderato dall’artista, che, ad oggi, reputa molte delle canzoni incluse in “US” tra le sue migliori, e crea le giuste dinamiche interiori nell’ascoltatore, che percepisce, contemporaneamente, una pulizia e unarozzezza” nel sound.
Scavando dentro di sé, Gabriel tira fuori il primordiale che c’è in lui e lo sviluppa, rivelandolo al mondo in una maniera inedita, eppure paradigmatica, perché il processo è “vecchio” di anni (già dal terzo album, “Melt”, del 1980, Peter si era tuffato nel mondo della tecnologia sposata al suono analogico).

Il “mitodi Adamo ed Eva si perpetra e convive con il matrimonio moderno, che fallisce, più o meno “miseramente”, in un tira e molla psicologico, che rischia, spesso, di esaurire le energie da entrambe le parti. Peter, negli anni ’80, passa attraverso una serie di sessioni di terapia, senza uscirne totalmente indenne – senza però uscirne distrutto. È consapevole. Infatti uno dei titoli presi in considerazione per “US” era stato “Us: Consciousness”, che – ammettiamolo! –, nonostante sia originale e renda abbastanza l’idea, sarebbe stato alquanto pesante, didascalico se vogliamo, oltre che anti-commerciale (come lo era stato anche “Melt”, stroncato dalla Atlantic per i contenuti sperimentali).
Come sempre l’artista inglese si avvale della collaborazione di molti strumentisti e di molte voci di gran classe e ad ampio spettro, come quella di Sinead O’Connor, autrice, nel 1987, del capolavoro “The Lion and the Cobra”, il suo esordio. Si risentono Brian Eno (in “Love to Be Loved”) e Peter Hammill (ai cori in “Digging in the Dirt”, insieme a Ayub Ogada e Richard MacPhail, amico e collaboratore di Peter dai tempi dei Genesis), ri-chiamati in causa.

Come sempre, il titolo dell’album è ingannatore, perché “US”, nonostante la brevità (monosillabica), una volta messo sul piatto, si rivela una bomba di suoni plasmati e uniti a regola d’arte. Peter, autodefinitosi più volte “musicista mediocre, ma bravo compositore”, dà il meglio di sé, non rinunciando a una perfezione formale, pur “lavorando di cuore”. Il calore è vivo, quasi materia, nei solchi di “US”.

Pur sapendo che l’album è incentrato sulle relazioni umane, prese sia globalmente – a livello sociale –, sia personalmente da Peter – che ha un matrimonio fallito, come già detto, alle spalle –, bisogna tener conto, accorgersi che non è solo un lavoro di introspezione, che vedrebbe l’artista vittima dei propri fantasmi e dei propri problemi. È un album sì introspettivo, ma anche esplosivo, speranzoso, di rinascita: di consapevolezza.

Non c’è solo il marito ferito, ma anche il padre assente, che in Come Talk to Meimplora la figlia, Melanie, di parlargli, di “liberare (insieme) la sofferenza”, di riappacificarsi; c’è un uomo che ha bisogno di calore, di vapore, in “Steam”, dello sciabordio dell’acqua, che agisca da secondo battesimo, in “Washing of the Water”; un uomo a tratti bisognoso dello slancio carnale, pieno di libido, che si esprime in “Kiss That Frog”, vivendo autoironicamente la sua condizione di uomo nella pelle di un rospo.

Settima in scaletta, “Digging in the Dirt”, ispirata a uno studio psicologico sugli assassini, è pura catarsi, un coacervo di emozioni – rabbia, desiderio sessuale, senso di solitudine, conseguente tristezza, voglia di riscatto –. Corredato da un video, che definire capolavoro è sminuirlo, per il quale Peter ha vinto il Grammy (al migliorvideoclip in forma breve”), “Digging in the Dirt” è diventato negli anni cavallo di battaglia, e, durante il Secret World Tour, Peter lo interpreta indossando sul capo un casco al quale è attaccata una videocamera (come fosse un’antenna).

A chiudere il concept, “Secret World”, mini-sinfonia postmoderna, che alterna momenti calmi a momenti forti, con una precisione e una finezza compositiva uniche nel mondo del rock. Gabriel porta gli ascoltatori nel suo mondo segreto – che è anche il loro! Questo brano spiega tutto l’album: dall’esperienza personale traumatica, del matrimonio spezzato, all’esperienza di redenzione-riconciliazione con il pubblico, e con l’ “altro” in generale. Questo è “US”. Un matrimonio globale.

Nonostante il successo di vendite inferiore rispetto al precedente “So”, “US”, progressivamente, ha acquistato notorietà e rispetto presso gli appassionati. A mio parere, non batte “So”, né concettualmente né artisticamente, ma è un degno seguito, “sulla falsariga” ma neanche troppo. C’era già stata la hit massiccia, “Sledgehammer”, replicata da “Steam”; c’era già stata l’apripista esplosiva, catartica, “Red Rain”, nella quale l’artista implorava “I’m begging you”; già “In Your Eyes” era una sorta di “Secret World”. Insomma, in “US”, si ritrova la struttura del Capolavoro precedente, ma si tratta, comunque, di un pezzo da Novanta, essendo un album di Peter Gabriel, gradevolissimo, speciale tra gli speciali. Se non un capolavoro, è almeno un classico degli anni ’90, che ogni appassionato di musica dovrebbe conoscere e avere nella propria collezione.

Carico i commenti... con calma