Succede all'improvviso, gli avvelenati arpeggi iniziali di "Modern" si insinuano severi, irti come spine di rovi, quella voce... quella voce non tarda ad arrivare, sublime e disperatamente rabbiosa insieme, inanella parole cariche di solitudine, svettanti tra il delirio elettrico che si sta infrangendo contro la volta celeste del cielo, ormai completamente annerita. Un cielo nero come la pece, le fughe centrali della composizione innestano elettroshock sonici reiterati tra strali organistici cupi, sacrali, totali, nel buio del cielo ritorna quella voce, scolpita in un cranio di stelle e comete che cadendo irradiano il buio di luce dorata, solo per un'attimo l'infinito si materializza davanti a occhi umani, totalmente impreparati a coglierne la sua essenza più pura e destinati a vagare in eterno in un limbo tra dolore e noia, il necromante Peter Hammill si fa qui figura sciamanica, trasfigurata tra l'ossessività e il delirio.

L'impianto strumentale viene ridotto all' osso, il piano, la voce e pochissimo altro, è l'intelaiatura minimalista che innesta vertigini tra il meraviglioso ed il terribile di "Wilhelmina", lacrime sanguinanti di un'anima straziata nella sua essenza, è un cantico intimista e deflagrante portato avanti da un Peter Hammill reduce da due ottimi capitoli solistici, ancora all'apice della sua tormentata e lacerante vena esistenzialista, andandosi a riprendere con quest'opera ciò che gli appartiene di diritto: il pathos, l'irruente, cupa e geniale creatività del fenomenale generatore, messo in (temporanea) ibernazione in quel 1974. L'afflato marmoreo e straziante di una perla oscura come "The Lie (Bernini' s Saint Theresa)" lasciva, irruente e intima lacera e sevizia ogni brandello di emozione rimasto integro, è pura forza liberatoria, pura estasi sonora, con quelle note di pianoforte aurorali e quelle voragini organistiche possenti, nere, infernali, Hammill intona "blasfeme" orazioni al limite del meraviglioso, illuminandosi di luce fioca, e puro terrore.

Un'opera di cotanto livello artistico e monumentale drammaticità non brillava nelle mani di Hammill e dei suoi soci affiliati al generatore (qui presenti al completo) dai tempi di quell'opera immortale che fu "Pawn Hearts", scolpita nell'eternità alle soglie della fine della sublime prima fase di gruppo del generatore. Composte proprio per quell'immenso ensamble delle ombre, ma poi dirottate per il cammino solistico di Hammill   furono infatti forgiate due gemme scure, irradianti malinconia e cupa decadenza: "Forsaken Gardens" e "A louse Is Not A Home", meravigliosamente drammatiche nella loro purezza e forza crepuscolare, la vocalità hammilliana irradiante tormento e meraviglia innalza cattedrali di cristallo tanto immense e grandiose quanto fragili e pericolanti. Le costruzioni strumentali si innestano sul tessuto sonoro in modalità ardite, a tratti grezze, irruente e tese, in perenne dualismo tra momenti meditativi e chiaroscurali e innesti deflagranti, il lirismo impregnato di un intimismo disarmante ammantato di una decadenza totalizzante, nero come la pietra, buio come la notte.

Una sensazione di solitudine difficile da disperdere, ci prova "Red Shift", psichedelica e vibrante, con l'asprezza della chitarra dell' ospite Randy California e costruzioni strumentali oblique e stranianti, ci prova anche "Rubicon", rilassata e pacata giostrata tra voce e chitarra acustica, ma sono tentativi che seppur ottimi non intaccano l'atmosfera cupa e meditabonda di uno dei capitoli più memorabili (se non il più memorabile) di una discografia solistica sterminata, coraggiosa e di grande qualità del geniale necromante Peter Hammill.

Carico i commenti... con calma