Febbraio 1974. Dopo il buon "Chameleon In The Shadow Of Night" Peter Hammill torna col suo terzo disco solista che vede riproporre più o meno gli stessi stilemi del predecessore, ovvero formula di canzone piano-voce o piano-chitarra slide, qualche pezzo rock con basso e batteria e, per concludere, una suite progressive finale. Detta così sembrerebbe la solita roba, ma abbiate un pò di pazienza e sveleremo la bellezza di quest'album...
Si parte con "Modern" canzone introdotta da una irritante in sommo grado chitarra acustica, che crea un cacofonicissimo (ma l'artista di Ealing c'ha ormai abituato a queste irritazioni sonore , per così dire, di "struttura") jingle iniziale; poi entra il sax del fedele David Jackson (ex Van Der Graaf, come Hammill) a seminare terrore sonoro e angoscia senza pietà: probabilmente saranno stati usati anche qui distorsore o qualche altro effetto strano. Quello che rimane alla fine di questa canzone forse è proprio la cantilena iniziale "Jericho' s strange, throbbing with life\ at its hearts"... Evitabile, comunque, la canzone, ma tant'è...
Tutt'altro discorso merita invece la seconda traccia "Wilhelmina", un capolavoro di voce-pianoforte, impreziosito nella parte centrale da un classicissimo clavicembalo che contribuisce a dare spessore emozionale al pezzo, al quale il basso (dovrebbe essere di Nic Potter, correggetemi se sbaglio, o forse dello stesso Hugh Banton) tiene efficacemente bordone. Canzone eccezionale, comunque, meritante forse il canonico "acquisto del cd".
Terza traccia, "The Lie (Bernini's St. Theresa)", canzone, come dice il titolo, ispirata alla celebre statua barocca del nostro Gian Lorenzo Bernini e raffigurante l'estasi mistica di Santa Teresa:infatti la canzone è introdotta da un silenzioso pianoforte, quasi impaurito e tremante, a rappresentare il timore divino della santa o, mutatis mutandis, del comune credente spaventato dalla potenza divina e dal timore che tutto quello che ha davanti sia "just another Lie"... Anche qui troviamo dunque la formula voce-piano-basso, che funziona, se non ai livelli eccelsi di "Wilhelmina", comunque in maniera più che soddisfacente.
Veniamo ora al Capolavoro "Prog-Rock" (tra virgolette, in quanto si tratta comunque di un pezzo relativamente breve) dell'album: "Forsaken Garden" ("Giardini Abbandonati", mi si lasci d'ora in poi lo sfizio di tradurre qualche frase significativa, come adesso il bellissimo titolo) è introdotta dal cantato nostalgico e affranto di Hammill che si chiede dove sia "tutta la gioia di ieri,\dove la felicità e i sorrisi che condividevamo...". Poi la canzone va in crescendo, entrano basso e batteria (Guy Evans, ovviamente, sempre dei VDGG) e il magico flauto di David Jackson sale in cattedra a dare toni decisamente apocalittici alla canzone, proprio quando Hammill canta: "There's ruination everywhere..", "c'è rovina dappertutto", e si sgola a cantare tutto il dolore del mondo e che ha bisogno di mostrarci davanti agli occhi, come fa (per "fortuna") spesso...
"Red Shift" è una canzone sorniona, quasi d'attesa, quasi viscida, con un andamento serpentino e "insinuante": ipnotizza, lascia uno strano senso d'incertezza: anche qui, forma-canzone quasi simile alla precedente (ovvero voce,basso, batteria, chitarra, tastiere,sassofono), sebbene la batteria sia più controllata e non incline ai superbi eccessi apocalittici di "Forsaken Gardens".
"Rubicon" è la classica ballata per slide guitar che si riserva Hammill (sarei tentato di dire "purtroppo", ma non lo faccio per rispetto alla statura, a mio parere, gigantesca del personaggio) in ogni suo album, ed io in verità pensavo fosse un pezzo sullo storico valico cesariano: niente di tutto questo invece, si tratta, probabilmente, di una strana storia d'amore o qualcosa del genere. Pezzo banaluccio, comunque, si può passare tranquillamente oltre.
"A Louse Is Not A Home" ("Un Pidocchio Non E' Una Casa"?!), è la suite-progressive finale, una delle ultime del nostro, (dopo non ne farà più, a parte "Flight" su " A Black Box" e poco altro) un altro pezzo fenomenale: "Sometimes\it's very scared here;\sometimes\it's very\SAD...", sono parole che rimarranno impresse a fuoco nella mente di colui che ascolterà il pezzo, e per il loro contenuto indefinito ("here","qui" dove?) e per la cadenza solenne degli accenti metrici. Dopo questo bellissimo e disperato ritornello, che continua con "There's a line\snaking down my mirror" dove interviene, fondamentale davvero qui, il sax di Jackson, il pezzo diventa appunto prog, con vari cambi di tempo: l'andamento diventa sostenuto e incalzante, reso ancora più incalzante da una lunga teoria di domande che Hammill si pone una dopo l'altra; poi una parte lenta: "Home is what you make it.." canta lentamente Hammill, per poi riprendere ad incalzare, adesso sì, in maniera convicente, nella strofa successiva ben rappresentata dalla frase "Could this be the guy who never shows\ the cracked mirror what's he's feeling", con un lavoro eccezionale di Evans sulle pelli; infine, dopo un altro rallentamento, si ritorna al solenne e grandioso grido del ritornello: "Sometimes\it's very scared here" ecc. per finire, appunto, in crescendo, con uno stupendo e crudele effetto di piatti elettonicizzati, o qualcosa del genere (che sarà presente, tra l'altro, anche nella senza-parole "Childlike faith in childhood's end" dei VDGG).
In conclusione, l'album "The silent corner and the empty stage" sia un ottimo album, penso, e spero per quanto mi riguarda che mi perdonerete qualche parola dettata da un eccessivo "trasporto affettivo" ...
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