Dopo l'eccellente successo commerciale che la "Peter Jacques Band" ebbe con l'EP "Fire night dance" per la "studio concept" band Italiana era tempo di un album vero e proprio, più maturo e studiato del prodotto precedente e sopratutto con un gruppo vero a disposizione. Sì, perché era questo il modo in cui il team Italiano del produttore Jacques Fred Petrus fabbricava hit e gruppi: da un lato c'era una schiera di songwriters (come Mauro Malavasi, Celso Valli, Davide Romani, Rudy Trevisi...) che componeva le canzoni e dall'altro c'era un nutrito gruppo di cantanti e musicisti che le suonavano. A decidere poi in quali album sarebbero finiti i pezzi e come avrebbero dovuto presentarsi ci pensava Fred.
Questo meccanismo ebbe qualche rara eccezione (che col passare del tempo divenne sempre meno rara) e l'album "Welcome back" può considerarsi tale. Finalmente la Peter Jacques Band era una band vera, con quattro membri veri. E già a leggere il titolo dell'album si capisce l'ambizione che c'è dietro e si comincia già a percepire una svolta radicale nel sound di tutte le altre band a contratto (o meglio dire create) con la mitica label "Goody music". Dall'eurodisco spensierato, orecchiabile e giocoso del primo EP del 1979, sotto l'egida di Mauro Malavasi (che scrisse tutto l'album), "Welcome back" (1980) si presenta con un sound più serioso, più orientato al new funk (detto anche "groove") e alle sonorità del decennio appena incominciato. Indubbiamente un enorme passo avanti (visto che tutta la restante produzione, salvo i ben più famosi "Change", ruotava ancora attorno alla scena disco music) e sopra tutto una chiara dimostrazione della capacità tutta Italiana di assimilare e di fare proprio ogni genere musicale.
Se artisticamente parlando il disco era a ottimi livelli, rasentava l'eccellenza dal punto di vista tecnico (elemento da sempre distintivo dei lavori targati "Goody music"). La precisione ritmica e sonora unita a degli arrangiamenti dinamici, avvolgenti ma mai eccessivi rende "Welcome back" un album di gran classe, con una grinta non comune e facilmente assimilabile. Per non parlare dell'assoluta orecchiabilità di tutti i brani, oltre ovviamente alla ballabilità, prerogative assolutamente indispensabili per un album prodotto da una label di prodotti destinati perlopiù alla pista da ballo (anche se album come questo suonano molto bene anche sullo stereo di casa).
Il lato A parte con "Counting on love one two three", brano brioso, convenzionale ma molto dinamico, utile a non spaventare (o stupire) troppo chi viene dal EP d'esordio e per abituare da subito l'ascoltatore alle nuove sonorità. Così si giunge all'ipnotica title track, "Welcome back", scritta da Malavasi con (indovina un po') la stella del soul (non ancora sorta) Luther Vandross! Se "Welcome back" presentava arrangiamenti elettronici miscelati con quelli acustici tanto da sembrare irreale arriva la terza song (e ultima del lato A), la sincopata "The louder" a mollare uno schiaffo in piena faccia a tutti, come per dire: "non è un sogno, è tutto vero, sono finiti i tempi della disco music, guarda al futuro!". Il lato B riserva ancora molte sorprese: la quarta traccia "Is it it" sarà il singolo di maggiore successo dell'album, che aprirà una breccia nella hit-parade nostrana raggiungendo in breve la top 20, lasciando una eredità ritmico-sonora che sarà raccolta a breve dalla scena nascente dell'Italo disco. Si passa la metà attraverso la song 5, "Exotically", molto simile come impostazione alla 1, ottima come riempi-pista mi banale e orecchiabilissima (con qualche spunto preso in prestito stavolta dalla disco music). Ultima traccia (eh sì, purtroppo sono solo sei) la melanconica "Mighty fine", forse la migliore dell'album, simile ma non troppo a "The louder".
E così si chiude un altro pezzo di storia della musica Italiana (seppur cantata in Inglese) a torto dimenticato o forse vittima di ben peggiore indifferenza. Fatto sta che questo genere di prodotti oggi come oggi sono destinati alle orecchie di appassionati e simpatizzanti visto che in radio passano mooooooooolto raramente (una volta ho sentito "Is it it" su una radio locale). Forse è meglio così, penso che la musica prima di essere commentata vada capita e credo anche che la radio stimoli giusto l'opposto. Quindi, visto che questo è DeBaser, lascio che i veri intenditori leggano questa recensione e che commentino. Quelli che sono capitati qui per caso e che hanno letto fino a qua hanno fatto ugualmente bene e hanno arricchito il loro bagaglio culturale con un disco (per l'epoca in cui uscì) innovativo e che fu il migliore in assoluto della discografia della mai-del-tutto-dimenticata "Peter Jacques Band", figlia di quel genio di Malavasi, di quella volpe di Fred Petrus, di quel paese chiamato Italia.
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