Nell'Inghilterra post-punk dei primi anni '80 vi fu un gruppo che non ottenne il successo che avrebbe meritato. Mi riferisco ai The Sound. La loro canzone più famosa fu "I Can't Escape Myself". La scrisse, il vocalist e chitarrista del gruppo, Adrian Borland; il quale, dopo una vita caratterizzata da una lotta esasperata e impari con la malattia mentale che lo afflisse per tutta l'età adulta, scelse il modo più radicale di tutti per sfuggire a questo insormontabile dolore interiore: il suicidio. Ad essere precisi, quello del corpo, finito dilaniato sotto un treno in una stazione londinese in un giorno del 1999.

Il soggetto della mia recensione però non è Adrian Borland, ma un altro uomo, anche lui musicista/cantautore, che pure era perseguitato da un male di vivere incessante, avendo la piena consapevolezza di non poterlo mai vincere. Anche lui scelse la via del suicidio, ma di quello dell'anima, lasciandosi fagocitare da una atroce, devastante deriva alcolica. Costui fu Piero Ciampi da Livorno, anche lui un uomo che tentò per l'intera sua vita di fuggire da se stesso, da tutto e tutti, conducendo una vita raminga, infelice, all'insegna della precarietà e del disordine più totale, senza requie alcuna, alla ricerca di qualcosa che non si può trovare e che, se si può trovare, non si può far proprio.

Questa sua tendenza alla fuga dal nulla che si possiede e alla totale scostanza di carattere, intenti e obiettivi è testimoniata, innanzitutto, dalle notizie biografiche che trapelano qua e là. Notizie che narrano di un suo approdo a Parigi a 23 anni, avendo con sè solo una chitarra e ciò che aveva addosso (ma poi quanto ci restò a Parigi? Non si sa, non si capisce... e chi incontrò? Si dice Celine, si dice Brassens... certamente Leonard Cohen, come fa intuire una recente intervista ad Antonello Venditti). O del fatto che, dopo un primo fallimentare disco, ottenne (grazie al buon ufficio di Gino Paoli) un contratto dall'RCA con tanto di faraonico anticipo usato per scomparire improvvisamente alla ricerca della moglie che era tornata in Inghilterra e che lo aveva piantato in asso con il figlioletto appena nato. Certamente non li trovò, perdendosi perennemente ubriaco per le strade di questa o di quella nazione, dalle quali spedì cartoline agli amici.

E poi ci sono le testimonianze di chi lo conobbe brevemente o lungamente, fugacemente o intensamente. C'è chi lo definisce rissoso, chi egoista, chi generoso, chi grezzo, chi colto, chi amabile, chi intrattabile. Certamente, però, devoto a tre passioni: la poesia/musica, il vino e le donne. E quasi non si capisce come possa aver trovato un equilibrio nel rendere un minimo costruttiva la prima risucchiato inesorabilmente dalle altre due. Tuttavia ce la fece, nell'unico modo possibile, tenendo conto di tali premesse: deponendo qualunque armatura e difesa, mettendo la propria anima a nudo nelle proprie miserie. Come nessun altro nel cantautorato italiano ha mai fatto, fa e farà. Senza proteggersi però è impossibile uscire incolumi da un mondo del genere. Ciampi lo sapeva e lo ha pagato caramente sulla sua pelle. E in questa disperata coerenza c'è molto della sua grandezza artistica.

Tutto questo ambaradan per cosa? Per recensire l'ultimo suo disco non recensito su Debaser, "Dentro e Fuori", risalente al 1976. Guardando la sua discografia si nota che è il quarto della serie, a distanza di tredici anni dal primo. E già questo fa intuire quanto la sua autodistruttività gli abbia fatto perdere molte occasioni, la possibilità di essere più "centrato" per scrivere e pubblicare molte più canzoni. Al suo fianco, come in "Piero Ciampi" del 1971 e "Io e te Abbiamo Perso la Bussola" del 1973, c'è il fido Gianni Marchetti che si occupa della veste musicale delle canzoni, della loro strumentazione e dei loro arrangiamenti (qui più delicati, carezzevolmente malinconici e in punta di piedi che mai).

Come detto in precedenza, in Ciampi, più che in tantissimi altri, le canzoni sono lo specchio della propria anima. E quindi ancor più che nei lavori precedenti si nota di aver a che fare con un uomo che sa di avere i giorni contati, che è conscio che il proprio processo autodistruttivo è giunto alle battute finali e che quindi deve dire il più possibile nel pochissimo tempo a disposizione. Infatti, nessuno dei testi riesce a raggiungere l'incredibile capacità di sintesi espressa in brani come "Il Vino" o "I Sobborghi", ma, anzi, essi si dispiegano più ricchi, abbondanti ed ermetici. Mentre vent'anni di eccessi alcolici e di sigarette (rigorosamente senza filtro) presentano il conto ai danni di una voce sfatta, cruda, spesso sull'orlo della stonatura. Voce che non può reggere l'andamento veloce di certe canzoni del passato e che non può che poggiarsi, quasi sempre sussurrando con straziante melanconia, su musiche lente che, all'occorrenza, sanno anche incresparsi e/o impennarsi.

Le due canzoni manifesto del disco non possono che essere "Uffa che Noia" e "L'Assenza è un Assedio". La prima su un tramonto di un giorno amaro come tanti come occasione per riflettere sul proprio fallimento esistenziale, saturo di disillusione e nell'attesa che termini "questo squallido imbroglio tra la vita e la morte". La seconda con una prima straordinaria strofa che descrive chirurgicamente la sua condizione esistenziale e con un arrangiamento impressionista da brividi. Tuttavia, l'anima del disco e anche il bandolo della matassa di questa mia recensione vanno ricercati altrove. Non nei rimandi letterari a Cervantes e Camus di "Don Chisciotte" e "Raptus" (che tradiscono il fatto che colto lo fosse davvero). Non in "Va", che spicca per uno dei migliori matrimoni della sua carriera tra melodia, arrangiamento, testo e cantato. E neanche negli psicodrammi individuali di "Canto una Suora" o di "Disse: Non Dio, decido Io". Ma nella Livorno di "Sul Porto di Livorno", intesa come una casa che si ama con profonda nostalgia, ma nella quale è impossibile "ripiantarsi" dopo una vita errante, con un' anima "ferita a morte" da troppe delusioni. Nel "Viso di Primavera", dove si disvela il mistero della madre, una nobildonna montegrina ebrea decaduta, affetta da problemi mentali e lasciata letteralmente a morire dentro un manicomio (quello di Volterra, ndr). E nell' "L'Incontro", forse il brano emotivamente più devastante della sua carriera. Improvvisato, con gli accordi liberi di Marchetti al pianoforte, dei violini gelidi come lame e Ciampi che canta un testo sull'impossibilità di ripristinare un rapporto con la figlia secondogenita, ricco di versi che sono delle mattonate sullo stomaco per quanto sono reali nella propria dolorosità.

Livorno, la madre e la figlia. Tre fantasmi che si ergono come relitti tra le tante, troppe cose perdute lungo il cammino della vita di un uomo che ha provato a fuggire da se stesso, incapace di scendere a compromessi con il proprio dolore e con una sensibilità così forte da rendergli impossibile il collocarsi convenzionalmente in una società votata al cinismo e all'indifferenza allora come oggi. Non riuscendoci. In quanto è impossibile fuggire da se stessi. Purtroppo o per fortuna.

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