Nick Mason, parlando del corso più recente della sua band, sembra aver archiviato "A momentary lapse of reason" come uno dei capitoli meno riusciti e più pretestuosi della sua carriera. Vuoi perchè nato da esigenze particolarmente poco ispirate, vuoi perchè messo insieme in una fase sicuramente poco serena, Mason reputa questo album figlio di una volontà meno artistica e più personale. E se molti non sembrano condividere il suo punto di vista (specie quando giudica "The Division Bell" migliore), gli dò atto che sulla lunga distanza questo lavoro mostra molti difetti dovuti alle ragioni di cui sopra.

"A momentary" doveva essere l'album del grande ritorno, la scommessa commerciale più ardita, la dimostrazione che il gruppo anche senza Waters poteva arrivare in alto mantenendo inalterata la qualità. Di fatto una creatura gilmouriana votata a voltare pagina senza tradire o deludere il pubblico e i fans, armata di quanti più orpelli potessero tenere fede alla tradizione floydiana: copertina concettuale mirabolante, suoni di nuova generazione, testi di spessore e ovviamente un tour galattico capace di far rivivere i fasti multimediali degli anni '70 anche alle nuove generazioni nel mondo intero. E sul piano pratico la cosa ha indubbiamente funzionato: vendite eccellenti, concerti da tutto esaurito, un ritorno all'attenzione generale degno dei tempi di "The Wall".

Tuttavia sul piano strettamente musicale la nutrita e variegata tracklist non conserva affatto quell'appeal che altri lavori dei Floyd hanno regalato alla storia del rock. Anzi, traccia un percorso che spesso ha un retrogusto di studio a tavolino, mirato a costruire un equilibrio formale che medi le esigenze di tutti. Non ci vuole un esperto per capire che Gilmour - assieme a un manipolo più o meno inedito di collaboratori - aveva pianificato gli ingredienti e i dosaggi giusti per garantirsi un rientro sicuro sulle scene. E così, tra una strizzata d'occhio e l'altra, l'album scorre senza particolari vertici creativi, senza lasciare alcun pezzo davvero memorabile. Basti pensare al fatto che anche le discrete atmosfere di "On the turning away" o "Yet another movie" nell'economia globale dello show dal vivo restavano sommerse dalla potenza evocativa di classici come "On the run" o "One of these days".

Ineccepibile lo sforzo produttivo, dove i suoni pesano e la sperimentazione cerca di restare al passo coi tempi, seppur largamente superata da quasi un decennio di innovazioni elettroniche. E in tal senso le parti più obsolete e noiose restano appunto quelle dove Gilmour tenta di fare qualcosa di diverso: "A new machine" ne è un chiaro esempio, con l'uso della funzione che consente alla voce di farsi doppiare paro-paro da un sintetizzatore (funzione assimilata da apparecchi allora di moda come il VP-70 della Roland). Meglio, dunque, i momenti in cui la band si muove sui terreni sicuri del suo stile, fraseggiando alla Dark Side o ammiccando alle ballad più classiche come "Wish You Were Here".

Ed è allora che, d'accordo con Mason, dico che alla fine non sono bastati i letti sulla spiaggia, i cani della guerra, il ritorno (defilato) di Wright a tenere in piedi un'opera la cui parabola si è estinta nell'arco del relativo tour mondiale. La valenza semmai è stata quella di un gesto morale - più o meno dovuto, certamente voluto - che non lasciasse cadere in depressione gli unici veri sopravvissuti di una stagione fondamentale del rock. Sicuramente con qualche rimpianto che non ha lavato via la sensazione di invecchiamento.

Comprato ancora in vinile (era il 1987) è uno dei dischi floydiani che ascolto meno in assoluto. E mai ascolto per intero, perchè pezzi come "Dogs of war" sono davvero imbarazzanti, oltre che inascoltabili.

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