La prima reunion dei Pink Floyd dopo la dipartita di Roger Waters aveva prodotto un album mediocre (A Momentary Lapse of Reason) ma soprattutto denaro contante andato a gonfiare le tasche dei 2 superstiti del gruppo. E questo sembrava bastare a spiegare il perché il gruppo non fosse morto a comando del dimissionario bassista e paroliere.
Nel 1994 l’uscita di THE DIVISION BELL si nutre di nuovi sentimenti: orgoglio, voglia di segnare per quanto possibile gli anni '90 e desiderio di dimostrare che Roger Waters si era maledettamente sbagliato. Lo straordinario successo del disco fece intendere che il pubblico si era schierato dalla parte di Gilmour Wright e Mason: in quasi trent'anni di carriera fu una delle opere dei Pink Floyd di maggior successo.
"In questo disco Nick e Rick hanno suonato tutto quello che dovevano suonare: per questo, secondo me, è il disco più geniuino dei Floyd dai tempi di Wish You Were Here" spiegò David Gilmour durante un intervista.

In effetti THE DIVISION BELL appare come un disco scrupoloso, frutto di più di un anno e mezzo di registrazione e la reintegrazione a tempo pieno di Richard Wright, con la caratteristica veste grafica di Storm Thorgerson e la produzione di Bob Ezrin. I testi, anch'essi più solidi (grazie al contributo di Laird Clowes e Anthony Moore, ma soprattutto dalla moglie di Gilmour, Polly Samson) contribuirono a ricreare le atmosfere degli album degli anni '70.
Molto vicino ad essere un concept, nella migliore tradizione dell'era Waters, il cui tema centrale è quello della comunicazione. Immancabili i fantasmi del passato che Gilmour affronta in prima persona: la recente separazione dalla moglie e la sua personale ripresa (Coming Back To Life); la rottura del sodalizio con Waters (Lost For Words); l'irreversibilità delle condizioni di Barrett (Poles Apart).
L'album affronta le difficoltà di comunicazione non solo a livello personale ma anche a livello collettivo (A Great Day For Freedom, Keep Talking, Take It Back). La prova migliore è senz'altro la struggente High Hopes, un inno che rappresenta un nostalgico ritorno di Gilmour agli anni di Cambridge e una riflessione sullo scorrere del tempo.
I passaggi orchestrali sono diretti da Michael Kamen. Gli strumentisti che accompagnano i Floyd sono gli stessi di Delicate Sound Of Thunder, con l'importante eccezione di Dick Parry al posto di Scott Page al sax.

Proprio la conferma di un team e di un idea già vincente è il segno che il gruppo intende muoversi nella continuità rispetto al passato, senza proporre nulla di veramente nuovo. Gilmour, Mason, Wright non fanno altro che assecondare il mito Pink Floyd trasformato in triste clichè, creando archi sonori senza meta alcuna, assoli dietro cui c'è il vuoto, immagini suggestive ed enigmatiche ma vane e superficiali.
Sicuramente un lavoro più caldo e affascinante del precedente anche se non accade nulla di veramente significativo, è un glorioso e retorico già-ascoltato, una riedizione ben restaurata dei 30 anni di carriera dei Pink Floyd.
Quasi che tetando di liberarsi di Roger Waters, ne abbiano creato una brutta copia, un mostro di Frankestein assemblato come meglio si poteva. Tecnicamente è venuto bene. Quanto a emozioni ai fans basta che siano riproposte le vecchie e rassicuranti abitudini di sempre. Ma appaga fino ad un certo punto.

Carico i commenti... con calma