Non credo di essere uno dei pochi ad essere rimasto ammaliato da una donna-artista come Polly Jean Harvey. Bellezza difficile e irregolare, persona fragile e irruenta. Lo ammetto, da ascoltatore è ciò che ho aspettato per anni, convinto che dovesse prima o poi arrivare una ragazza indipendente, determinata, raffinata come questa. Spesso paragonata all'altro illustre precedente, la seminale Patti Smith, PJ Harvey in realtà si distacca molto da questo pur valido modello. Anche lei è una pura femmina irrimediabilmente votata al rock, emersa come leader di un potentissimo power-trio a suo nome e impostasi unanimamente con l'ultimo episodio di un esaltante triologia di rock alternativo (il best-seller "To Bring You My Love", 1995), ma ha una personalità che sarebbe peccato di superficialità sottovalutare come quella di una - seppur illustre - discepola. A Polly Jean della madrina di "Horses" sono rimasti giusto la chioma corvina, il debordante magnetismo e un carattere fortemente determinato. Ma è un talento diverso, non si può dire né superiore né inferiore. La voce è simile ma più versatile, sempre più con gli anni messa in gioco e in difficoltà da perticose esibizioni tonali, tra sussurri, sospiri ansimanti, grida disperate, potenti vocalizzi pronti a sorreggere da soli intere canzoni.

Dobbiamo capire che non abbiamo davanti comunque una donna sicura, equilibrata, lineare, rispettosa magari del rock più tradizionale e desiderosa di inserirsi in qualche corrente musicale o in un epoca determinante: non c'è tempo per pensare ai problemi del mondo, alla sensibilizzazione sociale di un pubblico. I problemi interiori sovrastano, risucchiano e rialimentano la linfa di questa donna, consumata dall'amore, in tutte le sue forme. I sentimenti comandano la volontà. E la canzone, la melodia, il ritmo, tutto è un riflesso delle passioni che si agitano in fondo al cuore. Polly è una che la vita se la vive tutta, se la beve con una avidità incredibile, senza risparmiarsi. È la visione dell'universo come un fluido continuo, che da solo fa esistere la vita, che può scorrere irrazionalmente più dalla parte della felicità o dell'amarezza. Ma in questi racconti duri, espliciti ma anche poetici, ogni aspetto della realtà presenta due facce. Non c'è mai chi può farti del bene senza ferirti, o viceversa. È un tormento sadomaso, di chi si lascia usare, per poter usare dopo con più forza. Non c'è brutto o bello, buono o cattivo, ogni cosa vale la pena di essere fruita, anche la più pericolosa, col rischio di un’autodistruzione (diventando eventualmente pure anoressica e tossicodipendente) sempre dietro l'angolo.

Il primo botto, la rivelazione, fu "Dry", una perla che vola oltre il neonato grunge, oltre le future pompatissime e subito accostate Liz Phair o Alanis Morrisette. Un ciclo di emozioni fuori dagli schemi fino allora imperanti. Se vogliamo Dry è uno dei primi frutti della rivoluzione del 1991, quasi la risposta femminile a "Nevermind". Ballate acustiche sporche e malate, con violoncelli e chitarre grasse come in "Plants And Rags", inni spacca-montagne e troppo sensuali come "Victory", incubi post-new wave come "Fountain", quasi una "Lullaby" smithiana denudata, ancor più claustrofobica, spettrale. Il punk scatenato a due voci di “Sheela-Na-Gig", il delirio di un amore a tre nell’hard-blues di “Oh My Lover”, ogni stanza diventa una sorpresa di labbra che disegnano piaceri con rossetti color rubino, piedi da leccare con sottomissione, unghie rotte, boschi in cui passare intere notti di misticismo e piacere. Le radici del rock vengono appunto "seccate" ("Dry"), sterilizzate e di nuovo riempite di umori, ma appartenenti esclusivamente alla protagonista, pronta per essere aperta e spiaccicata in copertina quasi come nel bowiano “Lodger“. Il suono è accuratissimo, preparato a suscitare tremiti, ronzii irritanti, mentre Polly ti confessa le sue paure, cosa la fa impazzire a letto, le visioni che percepisce in stati di traballante trance panica, dove si scopa alberi e balla insieme al sole, a streghe e annusa sangue, odori di uomini a cui viene chiesto di essere tutto, e anche di più. E noi? Non aspettavamo altro.

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