Dare un seguito di qualità ad un capolavoro come “Let England Shake” sembrava un impresa ardua, forse impossibile. Non per Polly Jean, evidentemente.
PJ Harvey torna dopo cinque anni con questo “The Hope Six Demolition Project”, nono album in studio di una carriera che si appresta ad introdurla senza sforzi nel gotha del rock albionico. Figurano alla produzione i fidi Flood e John Parish, ed il disco è stato registrato all’interno di un’istallazione di arte visuale , un cubo insonorizzato trasparente installato a Londra che ha permesso al pubblico di assistere al processo creativo.
Per raccogliere le idee, PJ si è lanciata in un viaggio (assieme al fotografo Seamus Murphy, con il quale ha collaborato anche al libro “The Hollow Of The Hand”) cha ha toccato mete come Kosovo, Afghanistan e Washington D. C. . Il titolo del lavoro deriva da un progetto di demolizione di case popolari al fine di costruire un grande supermercato: va da sé che ci troviamo di fronte ad un altro disco molto arrabbiato, politico, specialmente a livello dei testi che si confermano taglienti ed abrasivi.
A livello musicale, invece, Polly ci delizia di nuovo andando a variare il menu proponendo influenza tra le più disparate. Il primo singolo “The Wheel” presenta alla perfezione il lavoro con un alt rock stonesiano dritto che funge da trait d’union con le atmosfere dell’opera precedente, impreziosito da un sax incastonato su di una ritmica frenetica ed impaziente. “The Community Of Hope” (non a caso secondo singolo) è il brano più classico e forse radiofonico del disco ed ha l’onore di aprire la tracklist, per poi lasciar spazio ad una “The Ministry Of Defence” acida ed irregolare, vagamente riconciliante con gli esordi della bella cantautrice inglese (lo stesso dicasi per “Chain Of Keys”). “Near The Memorials To Vietnam And Lincoln” è un simil-punk fatto alla sua maniera.
Non mancano i momenti dove si rallenta e l’epicità delle atmosfere prende il sopravvento, come in “River Anacostia” o la chiusura “Dollar, Dollar” (anch’essa impreziosita da un bel solo di sax), così come pezzi dove Polly sorprende ed ammalia cambiando improvvisamente registro (il cantato in falsetto su tappeto world di “A Line In The Sand”).
Era difficile tornare con un altro grande disco, Polly Jean ci è riuscita, riposizionandosi definitivamente e riaffermando uno stile sempre più personale che, con la sua commistione tra blues, rock e folk, ha trovato un equilibrio invidiabile e regalato una sensazione di continuità, senza perdere in qualità.
Miglior brano: A Line In The Sand
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