C’è qualcosa di magico nell’album Yoga attribuito ai Popol Vuh, un fascino che non si lascia scalfire nemmeno dalla sua storia controversa. Da appassionato della band di Florian Fricke, ammetto che inizialmente sono stato spiazzato: qui non c’è traccia delle sonorità cosmiche e delle vibrazioni mistiche che assocerei ai capolavori come Hosianna Mantra o Aguirre. Eppure, mi sono ritrovato, quasi senza volerlo, immerso in un’esperienza sonora che ha il sapore dell’eternità. Per molti ascoltatori, questo disco è diventato un vero e proprio oggetto di culto.

Pur non essendo un lavoro tipicamente dei Popol Vuh, Yoga custodisce un’anima. Le sue radici affondano profondamente nella tradizione della musica classica indiana, ma con il tocco sottile e introspettivo di Florian Fricke, che qui suona Harmonium e organo. Fricke stesso ha raccontato che l’album nacque quasi per caso: alcuni musicisti indiani lo visitarono in studio, e da quelle sessioni di registrazione presero vita le tracce che compongono questo LP. Sebbene le modalità con cui i nastri furono pubblicati siano nebulose, ciò che conta è il risultato: un’opera che si è guadagnata un posto speciale nel cuore di chi ama la spiritualità nella musica.

Yoga non è un album che colpisce subito ma col tempo ha assunto uno status di culto fra gli appassionati del gruppo tedesco e delle filosofie orientali. È come una preghiera sussurrata, un viaggio lento e meditativo che cresce dentro di te con ogni ascolto. Le tracce, dominate da strumenti tradizionali come sitar e tabla, si muovono in modo ipnotico, quasi come onde che lambiscono la riva. E proprio qui entra in gioco l’Harmonium di Fricke, che aggiunge una sfumatura mistica, un ponte tra l’est e l’ovest. Questa fusione non è forzata, ma naturale, come se il destino avesse deciso di creare un’opera che sfida ogni categorizzazione.

Per chi, come me, ama gli LP, questo disco offre anche un’esperienza sensoriale straordinaria. La stampa in vinile curata dall’etichetta PDU è un piccolo capolavoro: il suono è ricco, caldo, dettagliato, come se potessi quasi sentire il respiro dei musicisti mentre suonano. È una qualità di registrazione che rende giustizia all’atmosfera intima e profondamente spirituale dell’album. Non c’è solo la musica, ma un’intera dimensione sonora che si apre a chi è disposto a lasciarsi trasportare.

Se sei un fan dei Popol Vuh, potrebbe sembrarti strano all’inizio. Lo è stato anche per me. Ma Yoga non va ascoltato con il filtro del “Popol Vuh canonico”. Va preso per quello che è: un tesoro nascosto, un ponte tra culture e tradizioni, un invito a fermarsi e a respirare. Questo disco ti sfida a entrare in uno stato di quiete, di apertura mentale.

Capisco perché per molti sia un disco da custodire gelosamente. È uno di quei rari album che non si limitano a intrattenere: trasformano. E forse è proprio in questa trasformazione che risiede il suo più grande segreto. È un gioiello per collezionisti, ma anche una porta aperta per chiunque voglia scoprire una spiritualità che si manifesta attraverso il suono.

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