Cala lentamente il sole su una splendida giornata. Poche persone si raccolgono attorno al palco, chi chiacchiera, chi si beve una birra. La cornice offerta da Piazza del Duomo è a dir poco suggestiva: tutto sembra esser perfetto per godere (prima ancora che subire) un concerto che si preannuncia ricco di emozioni: Anathema e Porcupine Tree insieme, una diade maledetta che per colpa di Trenitalia e degli orari infausti di quel che allora si chiamava Transilvania, per poco evaporò nelle mie mani qualche anno fa, lasciandomi esterrefatto e basito in una Milano piovosa e costosa, respinto impietosamente da nerboruti buttafuori, deriso, dileggiato e brutalizzato in quanto candido ritardatario.
La pioggia e la delusione di quella notte svaniscono al contatto con il crepuscolo e con le armonie gentili di questa piazza. Quando irrompo nella scena, già suonano gli Astra, ma il loro prog rock marcatamente settantiano non mi prende per niente: costretti a suonare nei tre metri quadrati di palco a loro disposizione (tutto il resto è occupato dalla strumentazione dei Porcupine Tree), i Nostri capelluti, imbasettati e pantalon-campanati paiono la PFM de' noaltri; la mia attenzione quindi si volge alla parte opposta dello stage, il mio sguardo abbraccia il popolo indefinibile dei Porcupine con una piccola iniezione di oscuri discepoli degli Anathema. E così convivono bimbotti con le magliette degli Opeth e quarantenni sfalloppiati le cui capigliature hanno vissuto tempi migliori, fighette con PT scritto a caratteri cubitali sulle tette ed impiegati di banca impeccabili, tanto in ufficio con le loro giacche e cravatte, quanto stasera con la maglietta dei Novembre. Stranamente, non alzo la media dell'età degli astanti.
Attaccano i North Atlantic Oscillation, più dinamici e moderni nell'approccio dei loro predecessori, ma egualmente irrilevanti nell'economia della mia esistenza: mi siedo sugli scalini a rollarmi una sigaretta di tabacco, mi sorseggio una birra, sproloquio sui grandi sistemi, ma più che altro penso che è veramente bello uscire in anticipo da lavoro, godersi una giornata di sole, stare in compagnia di un buon amico per andar a vedere una volta tanto un concerto a cui si tiene per davvero. Ed apprezzo Piazza del Duomo. Ed apprezzo la birra fresca che mi scorre nell'esofago. Strano ma vero: apprezzo la vita nella sua imperscrutabile semplicità (probabilmente sono ubriaco).
Con l'avvento delle tenebre, giunge finalmente il momento tanto atteso: io son qui per loro, per me è un sogno che finalmente si corona. In modo quasi fanciullesco e con il sorriso sulle labbra, gli Anathema sgattaiolano scompostamente sul palco, salutano timidamente il pubblico e si assestano dietro ai loro strumenti. Finalmente capisco chi è chi, e chi suona cosa. Sono le note di “Deep” a risuonare nelle mie orecchie, e non potevo che accoglierle con estremo piacere, dato che rimango molto affezionato ad un album come “Judgement”. I suoni sono un po' bassi, la voce è ancora coperta dagli altri strumenti, seppur riconoscibile fra mille altre. Mi avevano detto che la voce di Vincent dal vivo rende al 1000%, ma per il momento la gloriosa “Deep” mi pare eseguita assai scolasticamente.
Angels Walk Among Us” e “A Simple Mistake” hanno il compito di introdurre l'ultimo album, quel “We're Here Because We're Here” che si è fatto attendere ben sette anni. Certo, se non sapessi che sul palco ci sono gli Anathema, starei già tirando bottiglie di vetro in testa al cantante dei Coldplay, tanto son mielosi i nuovi Anathema. I nuovi brani procedono tuttavia bene, la scelta è oculata: la prima sembra prendersi il posto della mitica “One Last Goodbye”, di cui purtroppo rimarremo orfani stasera; la seconda, con il suo crescere nel finale, ci regalerà il momento più muscoloso della serata. Se però devo dire la verità, il tutto non sfora veramente mai nell'autentica magia.
Paradossalmente sono i brani pescati dall'album che meno prediligo della loro carriera, ossia “A Natural Disaster”, a coinvolgermi maggiormente: non tanto per la sperimentale “Closer”, che comunque piglia bene con il suo incedere incalzante, e nella quale Vincent, il vero istrione della serata, si cimenta dietro alle tastiere per modulare la sua voce al vocoder. L'apice del concerto sarà tuttavia l'accoppiata che seguirà: “A Natural Disaster” vede protagonista Lee Douglas e si rivela un gradevole momento introspettivo, anche se a regalarci i veri brividi sarà l'attacco nel finale dell'ottimo Vincent, finalmente in palla, che interpreta alla grande un pezzo che su disco non mi aveva mai convinto. E poi arriva “Flying”, top emotivo della serata, forse vertice assoluto dei nuovi Anathema. In disparte, il fratello Daniel ( che mi aspettavo come il vero cuore pulsante della band) adempie ai suoi doveri con onestà, ma senza mai stupire. Totalmente irrilevante (sia a livello scenico che musicale) il terzo fratellino Canavagh, che vorrei tanto se ne partisse per India in cerca di se stesso per lasciare nuovamente spazio all'unico e legittimo bassista che gli Anathema abbiano mai avuto: Duncan Patterson.
Il concerto prosegue con una buona “Universal”, che rende bene dal vivo, e conclude il concerto all'insegna di quella commistione fra “Dark Side of the Moon” e “Ok Computer” che tanto piace ai sei inglesi. No!, aspettate, c'è spazio per un ultimo pezzo: una “Fragile Dreams” tiricchiata via, che francamente non fa faville dal vivo.
Che dire, in definitiva: buoni i primi otto pezzi, peccato che siano stati gli unici! Gli Anathema meritavano forse più tempo, si stavano scaldando proprio sul finale. Hanno provato a “fare l'evento”, alternando chitarre acustiche ed elettriche come il loro stile richiede, ma i pezzi veramente trascinanti sono stati i grandi assenti della serata: i Nostri, giustamente impegnati a promuovere l'ultima loro fatica discografica, han finito per trascurare (come degli assassini!) il loro passato, non spingendosi oltre “Alternative 4”, e permettendosi perfino di snobbare un album superlativo come “A Fine Day to Exit”.
Scaletta povera e deludente, quindi, ma soprattutto una impalcatura sonora che sembra reggersi sugli stecchi: una band, in definitiva, che ha faticato a riprodurre l'alchimia creata in studio (merito spesso di una iper-produzione) e l'intensità di brani che brillano (per sfumature e tonicità) decisamente più su disco che dal vivo. Non solo, ci si rende conto, forse, che gli Anathema pagano lo scotto di non essere né carne né pesce (che non necessariamente va visto come un demerito): troppo giovani per i vecchi, troppo vecchi per i giovani, finiscono per accontentare solo quei quattro sfigati che li seguono da sempre come me. Non sono dei musicisti portentosi, gli Anathema, e questo si è visto stasera, poiché sul palco pareva esserci solo l'ombra sbiadita di quel grande gruppo che ho amato tanto negli ultimi 16 anni e che probabilmente continuerò ad amare! Da rivedere per meglio valutare.
(three balls and half)
Chiariamolo: gli Anathema non sono stati affatto una delusione, e finché hanno suonato mi sono anche convinto che fossero bravi; il problema è quando ha fatto il suo ingresso sul palco Steven Wilson, che ha letteralmente fatto piazza pulita attorno a sé! Chiariamo un'altra cosa: era la quarta volta che vedevo dal vivo i Porcupine Tree (ma mai all'aperto), conoscevo il valore assoluto di Wilson e compagni, ma questa volta devo dire che i Nostri si sono davvero superati.
Ero convinto che sarebbe stato suonato per intero “The Incident”, ma fortunatamente non è stato così: non perché non mi piaccia l'album (anzi!), ma semplicemente perché secondo me la bellezza di un concerto sta nell'imprevedibilità della scaletta.
In ogni caso una buona porzione dell'album viene suonata: i primi cinque pezzi per l'esattezza, fino alla movimentata “Drawing the Line”. Le nuove canzoni funzionano bene, pieni e vuoti si alternano secondo le coordinate di quelli che sono gli odierni Porcupine Tree, sospesi fra (banale) metal moderno e (superlativo) pop-rock di classe.
A rischiararci il cammino arriva una splendida “Lazarus” che, nonostante il tiro commerciale, ho sempre apprezzato: piace perché aprirà la fase successiva del concerto, quella dei “classici”.
La magia vera e propria irrompe sul palco con l'accoppiata “Hate Song” e “Russian on Ice” (probabilmente il mio pezzo preferito dei PT): entrambe trasformate, più elettriche e psichedeliche che da studio, si materializzano e sono gioie per le mie orecchie. L'impressione è esattamente contraria a quella avuta per gli Anathema: qui i brani (vibranti, tonici, energici) vivono di una nuova vita, sembrano liberarsi dal giogo dello studio per ampliarsi e volare alto nel cielo. Questi, ragazzi, hanno le palle cubiche.
Segue la porzione centrale di “Anesthetize”, che sa coinvolgere nella sua chirurgica e metallica potenza. In “Blackest Eyes” i suoni s'iniziano tuttavia ad impastare, ma i Porcupine Tree rimangono dei musicisti mostruosi, e Wilson è il re del mondo. Certo, Wilson non ci regalerà i classici per cui l'abbiamo conosciuto ed amato, ma nessuno potrà negare il suo coraggio nel sapersi confrontare, oramai con regolarità, con i pezzi più complessi via via presenti nei suoi album: li suona e re-interpreta con la sicurezza con cui potrebbe eseguire “La canzone del sole”.
Prendiamo per esempio “Time Flies” (che ho atteso spasmodicamente!): perfetta in ogni suo frangente. Wilson cambia per tre volte la sua chitarra, passa dall'acustica all'elettrica e di nuovo all'acustica, coadiuvato dallo stuolo di servitori che si porta regolarmente dietro. Con il suo capello liscio e l'occhialino tondo, il suo guardo mesto e rivolto verso il niente, si muove sul palco con disinvoltura, seduto, in piedi, canta, suona, non ha bisogno di nessuno, nemmeno del pubblico, e probabilmente l'unica persona che rispetta nella piazza è il “metronomico” batterista Gavin Harrison, l'unico elemento di cui evidentemente non può fare a meno. Ritmiche, assoli, arpeggi, partiture acustiche: il suo estro camaleontico alla chitarra domina, ma sovente il Nostro, durante il concerto, si è andato a sedere anche dietro l'hammond, dimostrandosi artista completo e strutturato: è il padrone assoluto, non è certo un animale da palcoscenico, ma è sicuramente un eccelso professionista della musica.
Fra i solchi della porzione finale di “The Incident”, come a voler recuperare il concept dell'album nello schema circolare del concerto (in cui i temi dell'inizio si ripresentano nel finale, in versione stemperata e rallentata), l'esperienza volge ormai al termine: c'è ancora spazio per l'immancabile “Trains” che, seppur pasticciata, si conferma la canzone più importante di Wilson. Finisco per invidiarlo, poiché lui ha scritto la canzone della vita. Io no. E voi?
Ma in quanto pendolare, “Trains” è anche un po' mia, e con questa gradevole sensazione me ne torno a casa, per rituffarmi nella monotonia della quotidianità, per fortuna rischiarata da serate splendide e splendenti come questa.
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